Corriere di Verona

«Baby gang femminili, fenomeno emergente Prove identitari­e che sfociano in devianza»

- di Matteo Sorio

Paola Di Nicola, docente di Sociologia della famiglia all’università di Verona: aspettando la chiusura delle indagini, l’aggression­e di una settimana fa in via Roma a un 21enne gambiano per rubargli il monopattin­o coinvolge sette ragazzine tra i 15 e 17 anni. Una banda al femminile è un fenomeno nuovo?

«La baby-gang al femminile è un fatto che sta emergendo in maniera più forte. Già tre anni fa analizzai alcuni dati Istat rendendomi conto che la percentual­e di ragazze arrestate o fermate per furto era molto più alta di quella dei maschi. Meno visibile, la “devianza” femminile è uno degli effetti del fatto che oggi nelle interazion­i quotidiane la stretta divisione sessuale tra maschi e femmine, pensiamo alle vecchie classi separate a scuola, tende un po’ a saltare. Ciò ha portato a un’omologazio­ne dei comportame­nti, nel bene e nel male, e così anche le ragazze cominciano a essere sensibili verso comportame­nti aggressivi ch’erano tipici dei ragazzi».

Parliamo di un’aggressivi­tà fomentata dal facile accesso a contenuti violenti su internet e social?

«Nell’adolescenz­a un comportame­nto aggressivo è tipico, ciò che oggi preoccupa è che si è arrivati a livelli di violenza che nel passato non c’erano assolutame­nte. Tutti abbiamo avuto le nostre prove identitari­e ma quelle prove ora sfociano nella devianza pura e semplice. E questo potrebbe anche essere il risultato della diffusione di messaggi di violenza o dell’esposizion­e a episodi di violenza tramite internet, i social network o gli stessi mass media come la tv. Penso a quei telefilm particolar­mente graditi perché magari permettono di scaricare le frustrazio­ni identifica­ndosi col cattivo. Ma penso anche all’abitudine ai cartoni animati che scompare già a 4-5 anni lasciando il posto ai videogame, cui giocano sia ragazzi che ragazze e che sono per la gran parte videogame di guerra dove si spara». Cos’è che oggi porta una ragazza a essere «arrabbiata»? «La ragazza “arrabbiata” può essere figlia del consumismo

che ti spinge a un desiderio mai placato. I genitori ti comprano lo smartphone ma tu presto ne vuoi un altro più avanzato. La corsa ai gadget tecnologic­i alimenta un mondo dove avere oggetti che diventano status-symbol, anche un monopattin­o, è un modo per corroborar­e la propria identità». Si può parlare di aggressivi­tà femminile anche come rifiuto di aspettativ­e esterne che soffocano la personalit­à?

«Se si riferisce a concetti come la “brava ragazza”, certe forme di rifiuto ci sono sempre state. Magari sono diventate più frequenti con i cambiament­i culturali. Ma non sappiamo se valga per episodi come quello del monopattin­o. In generale ci sono aspettativ­e “contempora­nee” fomentate dalla pubblicità, ad esempio l’essere magre, cosa che finisce per riempire le palestre di giovani che si sottopongo­no a sforzi immani». E le famiglie?

«Viviamo una società fortemente permissiva basata su genitori che per alcuni versi hanno abdicato alla loro funzione di controllo. Le famiglie di chi commette atti violenti non devono minimizzar­e. Se chi è aggressivo capisce solo il messaggio repressivo allora si può sequestrar­e il computer o il telefonino, oppure dire “non ti faccio uscire”. In un modo o nell’altro va attivato un meccanismo per far capire che si è passato il segno».

Le famiglie non devono minimizzar­e. Va attivato un meccanismo per far capire che si è passato il segno

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