«Vasiljevic aveva pagato i suoi debiti con la giustizia Non potevamo tenerlo in galera per sempre»
Il presidente del tribunale di Vicenza Rizzo spiega perché il killer era libero nonostante le denunce e le condanne Dai domiciliari allo sconto in appello, ecco cosa è successo
VICENZA C’è una domanda che tutti si pongono, leggendo del duplice femminicidio di mercoledì a Vicenza: perché Zlatan Vasiljevic – un uomo violento, pregiudicato e più volte accusato di maltrattamenti all’ex moglie - è stato lasciato a piede libero e nelle condizioni di uccidere Lidija Miljkovic e Gabriela Serrano?
Se verso quest’ultima non c’era mai stata alcuna avvisaglia (la venezuelana non l’ha mai denunciato), di certo quello dell’ex moglie appare un delitto annunciato, visto che Lidija l’aveva denunciato, trascinandolo in tribunale. E proprio dagli atti giudiziari è possibile ricostruire come la giustizia si è mossa per tutelare la donna.
Le aggressioni più recenti segnalate dalla serba risalgono al marzo del 2019, quando in almeno tre distinti episodi l’uomo arriva ad abusare di quella che all’epoca è ancora sua moglie, a minacciarla e a puntarle un coltello alla gola. Immediatamente, le forze dell’ordine segnalano la questione alla procura di Vicenza e già il 27 marzo il gip accoglie la richiesta di misura cautelare: Vasiljevic viene quindi prelevato dalla sua abitazione ad Altavilla Vicentina e trasferito in carcere. Ci rimane nove giorni, quando - e siamo al 4 aprile - il giudice accoglie la richiesta della difesa e concede al bosniaco gli arresti domiciliari. In quella situazione l’uomo rimane per quasi nove mesi: non sono pochi, considerando che si tratta di una misura preventiva.
A dicembre 2019 il suo avvocato spiega che il bosniaco ha avviato un percorso di redenzione: ha trovato lavoro, frequenta il Serd per curare la dipendenza dall’alcol e partecipa a un programma rieducativo in un’associazione di Bassano specializzata nel trattamento degli uomini violenti. Per questo il difensore chiede che sia lasciato completamente libero. Ma il gip Roberto Venditti non si fida: nell’ordinanza scrive che occorre «mantenere estrema cautela nella valutazione positiva di un percorso solo di recente avviato» ma ammette che i domiciliari «rappresentano un ostacolo non sormontabile» per chi, come lui, deve recarsi al lavoro.
Per questo motivo accetta di revocare gli arresti ma gli impone il divieto di avvicinamento alla moglie e ai due figli, oltre all’obbligo di presentarsi ogni martedì, giovedì e sabato alla stazione dei carabinieri di Altavilla.
Il 2 luglio del 2020 Vasiljevic viene condannato a due anni e sei mesi che, con lo sconto di pena per il rito abbreviato, scendono a un anno e dieci mesi. Il giudice Venditti continua a ritenerlo pericoloso e quindi non gli concede neppure la sospensione della pena: se la condanna fosse diventata definitiva, il bosniaco sarebbe quindi tornato in cella. Non solo: quando tre mesi dopo il suo avvocato torna a chiedere la revoca delle restrizioni, il gip lo definisce «violento e prevaricatore» e conferma sia l’obbligo di firma dai carabinieri che quello di non avvicinarsi a Lidija e ai figli. Intanto però lui ha già presentato ricorso in Appello. E il 2 febbraio del 2021 i giudici di secondo grado non hanno dubbi sulla sua colpevolezza ma riducono di 4 mesi la condanna (che scende quindi a un anno e sei mesi) con la sospensione condizionale della pena. Solo a quel punto, dopo quasi due anni di restrizioni che non ha mai violato, Vasiljevic torna libero. È giusto sottolineare che, se anche la Corte d’appello l’avesse costretto al carcere, mercoledì il bosniaco sarebbe stato comunque fuori da un pezzo, visto che non risulta che Lidija abbia mai più denunciato tentativi di intrusione da parte del suo ex.
«Non so dire se, in questa vicenda, qualcuno ha mancato
di attenzione. Ma di certo, dal punto di vista del procedimento penale è stato fatto tutto ciò che si poteva» assicura il presidente del tribunale di Vicenza, Alberto Rizzo. «Il sistema giudiziario è intervenuto prontamente, adottando i provvedimenti necessari per neutralizzare il rischio che l’uomo commettesse nuovi reati. Ma le misure e le pene non possono avere un’efficacia a tempo indeterminato: significherebbe non credere nella riabilitazione e nel re-inserimento sociale dei criminali».
La soluzione, spiega Rizzo, è più complessa. «Penso che occorrano delle norme che consentano di creare una sorta di “rete delle istituzioni”: forze dell’ordine, tribunale, servizi sociali, Usl... Lavorando in sinergia si potrebbero intercettare quei segnali che consentono di prevenire e, per quanto possibile, evitare, la reiterazione dei reati».
La «rete»
Per Rizzo il sistema giustizia non basta, occorre una rete tra le diverse istituzioni