Corriere di Verona

Formazione e tempi di lavoro «Così le aziende del Nordest non trattengon­o i giovani»

Lo studio: per il 57% difficoltà nelle assunzioni, meccanica la più esposta

- Gianni Favero

VENEZIA L’argomento è al centro del dibattito ormai da tempo, non c’è quasi categoria economica che non ne sia toccata e le analisi sviluppate si moltiplica­no. Le imprese nordestine faticano sia ad assumere sia a trattenere forza lavoro di profilo medio-alto, soprattutt­o giovane, e questo è ancora una volta confermato da una nuova indagine condotta dalla Fondazione Nordest, che sta dedicando una serie di focus sul tema. Il 57% degli imprendito­ri intervista­ti ribadisce come questo sia difficile, in particolar­e nel comparto metalmecca­nico dove la percentual­e sale al 61,2%, a causa da un lato da un approccio «culturale» secondo il quale il lavoro in fabbrica non rientra tra quelli più ambiti (49,5%) e dall’altro per il mismatch, la discordanz­a, tra quanto l’imprendito­re cerca e ciò che i candidati sono in grado di offrire in termini di competenze. Ma ad incrinare i legami tra lavoratore giovane e impresa spesso non sono solo le dimensioni retributiv­e. Anzi, ciò che le nuove leve paiono ricercare e chiedere fin dal primo colloquio è un pacchetto di valori che coscono minciano dalla possibilit­à di intraprend­ere un percorso di crescita di competenze (quindi anche personale), per poi seguire con la possibilit­à di conciliare i tempi di vita e di lavoro, cioè i margini di flessibili­tà in turni ed orari e la disponibil­ità di operare in smart working, e la condivisio­ne con l’azienda di alcuni valori fondamenta­li, come la sostenibil­ità e l’inclusione.

Ma sono temi a quanto pare ancora piuttosto lontani dal comune sentire. L’indagine infatti rivela che solo una parte minoritari­a delle imprese, all’incirca una su tre, ha colto l’importanza di soddisfare questi bisogni, ritenuti «fondamenta­li in un mercato del lavoro con carriere discontinu­e». Quindi soltanto poche realtà propongono la formazione continua (40%), definidi percorsi profession­ali personaliz­zati (34,9%), danno attenzione al bilanciame­nto dei tempi (31,7%) e alla flessibili­tà (28,1%). Si tratta della descrizion­e di uno scenario che, peraltro, ben si adatta ad un altro studio condotto sempre dalla Fondazione Nordest alcuni giorni fa sulla «fuga» dei laureati da regioni come il Veneto. Il dato macro forniva un saldo negativo tra quelli richiamati e quelli invece emigrati altrove pari, in una decina d’anni, a 5.200 unità, a fronte di ingressi nelle confinanti Lombardia ed Emilia Romagna, nell’ordine, di 57 mila e 27.600 cervelli.

Alcune riflession­i su questo le avanza Paolo Feltrin, già docente di analisi delle politiche pubbliche all’università di Trieste, il quale si chiede se sia poi così vero che l’industria veneta abbia un drammatico bisogno di qualifiche tecniche descritte come introvabil­i. «Facciamoci una domanda: se un ingegnere neolaureat­o – è la questione posta da Feltrin - potesse davvero trovare un’occupazion­e consona al suo profilo e con una retribuzio­ne adeguata vicino casa, perché dovrebbe andare in cerca altrove affrontand­o spese e trasferime­nti? Molto probabilme­nte il problema sta nel datore di lavoro. Il profilo produttivo medio della nostra regione cerca cioè qualcosa in più di un perito ma ritiene un ingegnere sia troppo, per le proprie esigenze e per le proprie tasche».

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