La Capria e le Dolomiti
Rileggere «Ferito a morte» di La Capria, morto il 26 giugno, a 99 anni, lasciando un’intervista a Stefania Rossini su L’Espresso in cui diceva: «Ho amato molto la vita, la morte è solo un’altra faccia». Rileggere questo gioiello di letteratura del 1961, seguendo il vago ricordo di una menzione, e trovarvi Cortina: ecco, è proprio lei, un’evocazione fitzgeraldiana, nel ritratto di un improbabile personaggio sulla ribalta del boom. Cioè di quel primo tempo italiano in cui i parvenu si improvvisarono attrezzandosi per sembrare quello che non erano, come il Conte Max (il secondo, dopo la parentesi traumatica dei Settanta, furono gli anni Ottanta). Ed è parlando di questo improbabile Sasà, un avventuriero, un giocatore, un improvvisato, non casualmente incrociato a un tavolino di via Veneto, che La Capria snocciola le ville «a Roma, a Milano, a Cortina». Tra i Ruspoli e i Rizzoli e una principessa romana… «Torno da Cortina. Una puntatina per distrarmi». Ed è indimenticabile, degna di Balzac, l’immagine di Sasà al tavolo del bar con lo sguardo fisso, avvilito, ma che appena si accorge di essere visto si rianima e riacquista «quell’aria di passarsela a meraviglia che lo rendeva così simpatico a tutti». La Capria era stato in Ampezzo nel 2013, prima a parlare dei suoi libri, con Lorenzo Capellini, poi a riposare sulla terrazza del Toulà, baciato dal sole, che aveva cercato come fosse a Posillipo, trovando subito il gesto, la posa, la sdraio, insomma la sua cittadinanza naturale. E quante volte, in questi anni, guardando una Bella Giornata invernale o estiva, contemplandone il dato meteorologico, ci si è detti e ripetuti: ci vorrebbe un Tondelli, un Parise, ma soprattutto un La Capria delle Dolomiti per raccontare tutta questa bellezza! Per dire la luce, il profumo, la danza delle ore! E però anche il triste gioco delle illusioni che ciascun giorno riserva, come lo scrittore aveva capito: ogni Bella Giornata finisce con le sue ambizioni e i suoi desideri che restano là, non esauditi. Quanto a Cortina, nella letteratura è proprio quella che appare in Ferito a morte, una specie di ossessione nazionale che trafigge le classi, un mito italiano che esorbita grandemente rispetto a quel che è Cortina in sé, e forse solo chi non desidera davvero infilarsi nelle feste «di qualche industriale pieno di Ferrari e donne», chi le trova sinceramente noiose, chi non nutre invidia o complessi di inferiorità o esclusione o rivalsa, chi insomma ha deposto le armi, può davvero leggere queste pagine con un sorriso ironico, che sconfina nella gratitudine.