«Non è follia omicida» (i terroristi e la psiche)
Dopo gli attacchi terroristici a Charlie Hebdo e al Bataclan (solo per citare quelli più clamorosi dell’ultimo anno), ora siamo sconvolti dalla strage di Nizza. Un’escalation di terrore insanguina la Francia e semina il panico in gran parte d’Europa. Molto media hanno parlato di «follia omicida». Ma è davvero follia? Di fronte all’apparente insensatezza di questi episodi, alla loro documentata crudeltà ed efferatezza, la gente comune, ma anche l’informazione, tende a cercare formule che semplifichino il messaggio. Come la «strage della follia». E così si liquida con una banalizzazione un fenomeno estremamente complesso che ha radici profonde, inducendo il lettore a pensare erroneamente che tutti i gesti di crudeltà estrema e di fanatismo appartengano alla psicopatologia.
Fatta salva la specificità soggettiva degli attentatori (che possiamo solo intuire o ricostruire indirettamente poiché, con rarissime eccezioni, si uccidono o vengono uccisi), non risulta che qualcuno di loro avesse precedenti psichiatrici, e mancano dati pubblici sullo stato mentale dei pochi di loro che sono sopravvissuti. Ma al di là di questo, occorre dire che operazioni come quelle che li vedono protagonisti difficilmente possono essere messe in atto da soggetti con turbe mentali, giacché richiedono organizzazione, preparazione e segretezza che mal si conciliano con la «follia» e non sono riconducibili ad una singola persona. Anche l’attentatore di Nizza non era, con ogni probabilità, un «solitario» (e se lo fosse stato avrebbe ancor più dovuto possedere una buona efficienza mentale). In una pro- spettiva sociologica, molti elementi accomunano questi attentatori: l’essere francesi di nascita, figli di immigrati delle ex-colonie francesi del nord Africa ormai di seconda o terza generazione, il collocarsi nelle fasce basse di reddito e con ridotte possibilità di emergere data la crisi economica che investe i Paesi occidentali, l’essere di fede islamica in un mondo in cui una forza islamista integralista promette la distruzione della nostra società e il trionfo dell’Islam. In realtà qualsiasi prospettiva — culturale, sociologica, politica, religiosa, psicologica — che venga assunta singolarmente, rischia di condurci a deduzioni parziali e riduzionistiche di un fenomeno complessamente articolato. Se tuttavia vogliamo assumere una prospettiva esclusivamente psichiatrica, a rischio come le altre di essere riduttiva, questa ci orienta verso la presenza in questi soggetti di tratti abnormi di personalità, per lo più antisociali (i cosiddetti soggetti sociopatici), ma anche narcisistici. Va specificato che la sociopatia non si identifica con il concetto clinico di malattia di mente (riferita, per esempio, al paziente bipolare o schizofrenico, con deliri e allucinazioni) né con quello giuridico: per intendersi, il disturbo di personalità antisociale, pure nella sua forma piena, in ambito forense non intacca la capacità di intendere o di volere e quindi la libertà di autodeterminarsi. Ciò che ci colpisce profondamente è la fredda determinazione di questi individui che sembrano più impegnati in un videogioco che in un contesto reale fatto di persona vere, di uomini donne e bambini inermi, di sangue reale che scorre. E questo ci fa pensare a una aberrazione del «senso morale» normativo universale, cioè di quell’insieme di regole e di divieti condiviso da tutti, probabilmente innato, basato sulla capacità di percepire le implicazioni morali dei rapporti con gli altri e di agire di conseguenza al fine di non nuocere e di salvaguardare lo spirito di gruppo. I soggetti antisociali, o sociopatici, sono individui che hanno un disturbo dell’empatia (cioè della capacità di comprendere le emozioni, i pensieri e le azioni dell’altro, «mettendosi nei suoi panni») che sta alla base dei comportamenti sociali. Mancano di reciprocità, di sentimenti di pietà e di colpa, di senso di giustizia, di compassione, di reciprocità, di lealtà. Mancano cioè di quei
Tutti gli attentatori presentano tratti abnormi di personalità, sono sociopatici. Manca in loro la legge morale presente anche in molte specie animali
meccanismi funzionali alla conservazione di sé e della specie e responsabili di comportamenti che favoriscono la cooperazione tra individui e la creazione di un gruppo sociale. Esiste un codice morale innato, un insieme universale di regole e divieti seguito da tutti gli individui, in tutte le epoche, a prescindere dalle leggi stabilite da parte del gruppo di appartenenza, ed è centrato soprattutto sul «non nuocere».
Antigone, nell’omonima tragedia greca, fa un esplicito riferimento a questa morale innata quando parla di «leggi non scritte, inalterabili... quelle che non da oggi, non da ieri vivono, ma eterne: quelle che nessuno sa quando comparvero». Nel soggetto sociopatico, alterazioni dello sviluppo cerebrale, ad opera di una molteplicità di fattori sia genetici che acquisiti (fin dalla vita intrauterina e, successivamente, rappresentati da esperienze traumatiche precoci e modelli culturali), possono alterare i circuiti cerebrali che regolano questo codice morale innato, presente anche in specie animali.
E’ inappropriato, quindi, definire disumani o bestiali questi comportamenti antisociali di gravità estrema.