Il pianista di Mosca: il primo racconto dei giovani scrittori
Un ragazzo a Mosca negli anni ‘70 e un’esibizione nei campi tra i contadini Via alle storie dei giovani autori delle nuove riviste letterarie: 4 puntate per 4 domeniche
D’agosto a Mosca fa caldo, anche questo è cambiato. Il conservatorio era freddo; il cortile e gli alberi di fronte alla sua pancia neoclassica, sempre pieni di muschio. Ora sembra un albergo sul lungomare di Rimini, col sole a picco e la gente in pantaloncini. Hanno chiuso anche il chiosco che vendeva vodka, l’unico colorato di tutta la strada. Non mi aspettavo questa nostalgia da vecchi. La Nikitskaya, con i suoi palazzi finto italiani, spunta ancora in faccia al Cremlino facendo di tutto per non farsi notare. Una sequenza di ambulanti la costeggia, ma finisce una decina di metri prima, per sicurezza: anche nell’era post-sovietica, la libera iniziativa economica non è troppo ben vista se parte dai contadini invece che dagli oligarchi.
Quando sono venuto la prima volta era il 1976. Il partito aveva organizzato tutto e mi ritrovai qui a studiare pianoforte. Essere comunista era spazzare la piazza per la Festa dell’Unità, sentirsi migliori di quei matti che sparavano e magari ritrovarsi in Unione Sovietica a suonare con una ragazza mora e il suo flauto traverso. Era uzbeka e più lontana da casa di me. Lo scoprimmo sull’atlante, era l’unico libro nella mia stanza e a volte, sul letto, lo sfogliavamo. Aveva occhi cinesi. Non capivo nulla di quello che dicevano, solo la musica. E, ogni tanto, qualche parola: anche «comunismo», «rivoluzione», certo. Io e occhi cinesi ci tenevamo per mano di nascosto, c’era sempre qualcuno che ci seguiva e avevo bisogno di un permesso per andarla a trovare. Abitava dall’altra parte della città, un appartamento in comune con due famiglie e un vecchio soldato. Avevano interruttori separati per tutto: la luce in corridoio, il gas in cucina. Solo l’acqua calda non si pagava: il soldato metteva una pentola di patate sotto il rubinetto aperto al mattino e la sera le mangiava lesse. Occhi cinesi diceva sempre che era uno spreco, io scrollavo la testa.
Una mattina davanti al conservatorio spuntò un camion scoperto, vecchio anche allora, più adatto ad una fattoria che alle strade di Mosca. Sulla cima del radiatore aveva uno stemma senza vernice: MAZ. La A centrale si allungava per assomigliare a un missile. Dall’ingresso emerse un pianoforte verticale: un dignitoso Petrof nero. I nostri bidelli e altri due tipi sporchi e robusti lo caricarono sul camion urlandosi addosso, poi lo legarono al cassone di lamiera rugginosa. Era una scena strana, anche per me che non capivo mai cosa stesse succedendo. Occhi cinesi era a lezione, così quando i due energumeni vennero a chiamarmi, urlando il mio nome e agitando un foglio con il logo del conservatorio, non avevo nessuno che mi spiegasse cosa stava succedendo. Ridevano, mi chiamavano «compagno», mi davano delle pacche sulle spalle che quasi rotolavo a terra. Mi caricarono di peso sul sedile del passeggero mentre loro si sistemavano dietro, accanto al pianoforte, accucciati a terra. Provai a scendere, ma a forza di urla e risate mi fecero risalire un paio di volte. Dopo mezz’ora, arrivò un tipo poco più vecchio di me. L’autista allora mise in moto e partimmo.
Dovevo sembrare spaventato perché il tipo continuava a toccarmi una spalla e a chiacchierare in tono rassicurante. Tirò fuori il foglio con il logo del conservatorio e l’unica cosa che riuscivo a leggere era una lista di brani: Scarlatti, Corelli e Bach. E la falce e il martello. Mosca colava lungo i finestrini: la Moscova con i blocchi di ghiaccio, le strade semideserte, dritte dal cuore della capitale a tutto l’impero. Viaggiammo per tre, quattro ore, mi addormentai mentre il motore diesel spargeva fumo sui quartieri popolari, tutti identici, a perdita d’occhio.
– Kaluga!, gridò l’autista svegliandomi. Svoltammo verso la campagna con il sole che illuminava dei campi di grano cento volte più grandi di quelli di casa. Guardai l’autista e il tipo con aria interrogativa e questi parlavano e annuivano, indicandomi. Capii «italiano» e «pianista». Forse anche «cultura», e «lavoro». Dopo qualche chilometro apparve un gruppetto di una trentina di contadini che falciavano quel mare giallo. I due seduti dietro non aspettarono neanche che il camion si fermasse in mezzo al campo e saltarono giù ad abbracciare tutti. Il tipo seduto accanto a me salì sul cassone accanto al pianoforte e iniziò a fare un discorso ai contadini: «lavoro», «musica», «cultura». E poi «pianista» e «italiano». Tutti applaudirono. Mi issarono accanto a lui. Il tipo mi mise davanti la lista dei brani. Nel frattempo i contadini stavano tornando a falciare. Volevano che suonassi? Un contadino urlò: – Tarantella!, e tutti a ridere. Allora un altro: – O sole mio! – altre risate. Il tipo si arrabbiò e inizio a urlare ai contadini: «cultura», «partito», «serietà». E poi «lavoro», «impegno», «sviluppo», «collettivo». Alla fine ansimava. E a me «pianista», «italiano», «programma» indicando il pianoforte, tutto rosso in faccia. I contadini piegati sul grano scuotevano la testa e mi lasciarono suonare tutto il repertorio, per quasi due ore, spostandosi sempre più lontani dal camion mentre continuavano a falciare come se io non fossi lì.
Tornammo a Mosca a notte fonda. Occhi cinesi non c’era e non la rividi mai più. Non tornò al conservatorio e nessuno mi disse dov’era finita. Davvero, forse, potrebbe essere una qualunque di queste donne in maniche corte che vendono cetrioli in salamoia sulla Nikitskaya, al sole nuovo fiammante della Russia.