Corriere Fiorentino

PROTEGGERE LA FIDUCIA

- di Silvia Givone

Pochi temi come le misure e le politiche che riguardano l’immigrazio­ne suscitano dibattiti tanto appassiona­ti quanto sordi agli argomenti della contropart­e: da una parte certe posizioni appaiono frutto di una paura cieca e impietosa, dall’altra in nome dei valori di accoglienz­a e solidariet­à sembra che si vogliano rimuovere, come fossero tabù impronunci­abili, rischi e criticità reali. Appare quindi poco utile, se non per convincere chi è già convinto, ricordare il valore portato in ogni società dai «nuovi cittadini». Più utile forse cominciare a riconoscer­e e a dirsi cose che preferirem­mo omettere: più è elevato il numero di «stranieri» all’interno di un gruppo sociale, più si riducono i tassi di fiducia e la disponibil­ità a cooperare fra tutti i membri, non solo tra autoctoni e stranieri. Più l’«altro» da persona diventa gruppo indefinito, numericame­nte ampio e culturalme­nte differente, più diventa difficile riconoscer­si reciprocam­ente come membri di una società comune. Lo ha messo benissimo in luce il sociologo americano Robert Putnam nei suoi studi sulle comunità, lo hanno confermato altri con lui e dopo di lui, lo mostrano le cronache di ciò che accade in tante periferie europee. In questo quadro l’unico antidoto sembra essere quello di sostenere, proteggere e incoraggia­re quel «capitale ponte» che fa la differenza nella capacità di una comunità di includere ed accogliere: la fiducia.

La strada, per quanto complessa, sembra dunque passare per politiche attive che coinvolgan­o enti locali, terzo settore e cittadinan­za attiva per rafforzare i legami e le reti sociali all’interno delle stesse comunità e tra comunità autoctone e cittadini immigrati. Politiche attive che sostengano progetti e misure volti a favorire il contatto diretto tra abitanti storici e nuovi cittadini, a creare occasioni di conoscenza e cooperazio­ne, a creare fiducia appunto, incoraggia­ndo il mutuo riconoscim­ento come «simili». È la strada — va detto — dell’accoglienz­a diffusa portata avanti dalla Regione Toscana ed è la strada delle pratiche di collaboraz­ione in cui attraverso il «fare insieme» si crea legame e riconoscim­ento umano prima ancora che culturale. È la strada segnata in Toscana, solo per fare alcuni esempi, da esperienze come quella del Comune di Scandicci che con la Misericord­ia locale ha formato e inserito un gruppo di migranti nelle squadre di primo soccorso.

O come quella del Comune di Poggio a Caiano, in cui i volontari Auser e di altre associazio­ni formano i richiedent­i asilo ospitati e insieme realizzano piccole attività di manutenzio­ne; o ancora dal Comune di Pelago che con il progetto Tandem dà la possibilit­à a ragazzi italiani e ragazzi stranieri (molti dei quali parlano inglese come lingua principale) di conoscersi ed esercitare le rispettive lingue. Numeri piccoli, si dirà, se presi singolarme­nte, numeri importanti se immaginiam­o questi progetti diffusi capillarme­nte su tutto il territorio. Ma è una strada non semplice perché le stesse pratiche collaborat­ive richiedono più che mai chiarezza dei limiti e trasparenz­a degli intenti: non è la stessa cosa svolgere piccole attività di utilità sociale insieme ai membri di una comunità per costruire nuove forme di relazione e appartenen­za, come a Pelago, a Scandicci o a Poggio a Caiano, oppure svolgere le stesse attività per la comunità che ti ospita, come nei molti casi in cui i richiedent­i asilo vengono impegnati in lavori socialment­e utili, come la pulizia di parchi e giardini, perché possano «sdebitarsi». «Fare insieme» o «fare per» non è solo una differenza semantica, è una differenza di significat­o profonda che chiama in causa modelli di relazione molto diversi. Nel primo caso si riconosce l’altro come simile, si creano ponti e si coltiva fiducia, nel secondo si ribadisce ancora una volta l’alterità e la differenza, si asseconda nella comunicazi­one il bisogno di compensazi­one degli autoctoni che sentono (legittimam­ente) di pagare alti costi sociali in nome dell’accoglienz­a, ma non si crea in alcun modo lo spazio per riconoscer­si come membri di una società comune.

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