Sul regionalismo giusto cambiare Ma c’è un rischio
I NODI DELLA RIFORMA I RAPPORTI TRA ISTITUZIONI
La riforma interviene in modo radicale sul cosiddetto titolo V della Costituzione, nella parte che riguarda, specificamente, il rapporto Stato-Regioni. L’obiettivo è chiaro, ovvero ripensare il ruolo delle Regioni e, soprattutto, rimediare all’incauta riforma del 2001, voluta allora dalla sinistra, votata anche allora a maggioranza, e poi approvata dal referendum costituzionale. Una riforma, quella del 2001, che ha prodotto moltissimi problemi, un contenzioso Stato-Regioni di migliaia di ricorsi, 15 anni di giurisprudenza della Corte costituzionale.
Il testo su cui voteremo il 4 dicembre interviene sui seguenti punti.
1) Si amplia la potestà legislativa dello Stato, il suo potere di legiferare in via esclusiva su determinate materie, escludendo da tale ambito le Regioni. Lo Stato viene a recuperare infatti molte materie che, nel 2001, erano state attribuite alla competenza legislativa delle Regioni. Si tratta di un pacchetto di ben 20 materie che vanno dalla produzione, trasporto e distribuzione nazionale dell’energia alle infrastrutture strategiche e alle grandi reti di trasporto e di navigazione d’interesse nazionale; dai porti e aeroporti civili di interesse nazionale e internazionale al sistema nazionale della Protezione civile; dal commercio con l’estero all’ordinamento dello sport; dalla tutela e valorizzazione dei beni culturali e paesaggistici alle disposizioni generali e comuni sul turismo e sulle attività culturali, ecc.
2) La riforma elimina la cosiddetta potestà legislativa «concorrente» delle Regioni. In gergo tecnico si intende con ciò la competenza legislativa che appartiene alle Regioni ma rispetto alla quale lo Stato può adottare leggi di principio (su cui, appunto, lo Stato concorre). Ed attribuisce, invece, alla esclusiva competenza delle Regioni la potestà legislativa in materie enumerate. A titolo esemplificativo: rappresentanza delle minoranze linguistiche, pianificazione del territorio regionale e mobilità al suo interno, dotazione infrastrutturale, programmazione e organizzazione dei servizi sanitari e sociali, promozione dello sviluppo economico locale e organizzazione in ambito regionale dei servizi alle imprese e della formazione professionale, ecc. Inoltre tutte le materie rimaste fuori da detto elenco — e non sono poche — tra cui caccia, pesca, industria, agricoltura, artigianato, circolazione stradale, ecc. sono, comunque, di competenza esclusiva delle Regioni.
3) Si introduce l’interesse nazionale. Su proposta del Governo, lo Stato può intervenire con legge anche in materie non riservate alla sua legislazione esclusiva quando lo richieda la tutela dell’unità giuridica o economica della Repubblica, ovvero la tutela dell’interesse nazionale.
4) Si rafforza il regionalismo differenziato (rimasto finora lettera morta), cioè la possibilità per le Regioni ordinarie di potere acquisire maggiori spazi di autonomia in una serie di materie quali la giustizia di pace, il commercio con l’estero, il governo del territorio, ecc. Non per tutte le Regioni però, ma solo per quelle che hanno i propri bilanci in pareggio.
In sintesi, la riforma trova la sua ratio in un’ottica di: maggiore centralizzazione (con il recupero di molte materie allo Stato a scapito delle Regioni e la clausola dell’interesse nazionale); di semplificazione (venendo meno la zona grigia della competenza concorrente tra Stato e Regioni); di valorizzazione delle Regioni virtuose (regionalismo differenziato).
L’intento è positivo. Vi sono, tuttavia, alcune incongruenze e una lacuna macroscopica che vanno evidenziate.
Quanto alle incongruenze, per prima cosa, è tendenzialmente un errore scrivere troppo in Costituzione (e, soprattutto, scriverlo male!). Più si costituzionalizza, maggiori sono le ipotesi di potenziale conflitto che si possono aprire. Non solo. Si è voluto costituzionalizzare, addirittura, una lista di materie di competenza esclusiva delle Regioni. Tecnica redazionale a dir poco bizzarra poiché tale lista non può, ovviamente, essere esaustiva, dimostra il fatto che, accanto a detta lista, resta comunque il criterio residuale di competenza a favore delle Regioni.
In secondo luogo, eliminare completamente la potestà legislativa concorrente e rimettere tutto alla competenza esclusiva delle Regioni, è operazione discutibile, potenzialmente azzardata, in parte inutile. Discutibile perché in questi anni il contenzioso più problematico ha riguardato, in modo prevalente, le materie esclusive dello Stato e delle Regioni e meno quelle relative alla competenza concorrente. Potenzialmente azzardata perché potrebbe mettere a rischio l’unità dell’ordinamento nazionale, con la proliferazione di leggi regionali sulle varie materie, dalla qualità sovente scadente, come insegna l’esperienza. Né tale unità potrebbe essere recuperata da un utilizzo frequente della clausola di prevalenza da parte dello Stato, trattandosi di misura di carattere eccezionale. In parte inutile, infine, perché le competenze concorrenti non sono affatto scomparse. Si pensi ai vari casi in cui allo Sta- to viene attribuita come legislazione esclusiva il potere di dettare le «disposizioni generali», ad esempio per la tutela della salute, per le politiche sociali, per la sicurezza alimentare, per l’istruzione, per il turismo, per il governo del territorio, ecc. Cosa sono queste «norme generali» se non i principii fondamentali che già oggi lo Stato può adottare nell’ambito della potestà legislativa regionale concorrente? È presumibile ritenere che a tali norme generali e comuni dello Stato dovranno fare seguito norme «non generali», appunto speciali, delle Regioni. Insomma si potrebbe riproporre, per alcune materie, quella «zona grigia» che la riforma si proponeva di eliminare.
Sul tema del riparto di competenze tra Stato-Regioni lo scontro tra Sì e No si sta scaldando molto proprio in queste ultime ore. La Corte costituzionale infatti, con la pronuncia sulla «riforma Madia», ha espresso il seguente principio. Quando il Governo, sulla base della legge delega, interviene con i suoi decreti delegati su materie nelle quali le Regioni hanno competenza legislativa, deve tenere conto delle volontà di queste ultime. E non può farne a meno. Tale volontà regionale si deve esprimere non con un semplice «parere», ma con lo strumento più forte della «intesa» tra Stato e Regioni, espressione del principio costituzionale della leale collaborazione. Il che potenzia — e non di poco — il ruolo delle Regioni. Non solo perché ribadisce che il Governo debba ricome cercare l’intesa con le Regioni nella fase di attuazione amministrativa delle proprie decisioni, ma perché estende tale obbligo anche nella fase precedente, ovvero in quella legislativa, cioè di adozione dei decreti delegati. Una sentenza, dunque, che va nella direzione opposta rispetto all’obiettivo della riforma costituzionale che è quello, invece, di ridurre drasticamente il ruolo delle Regioni. Trattandosi di una pronuncia del supremo organo di garanzia costituzionale, adottata a pochi giorni dal voto, è un bel colpo di scena.
Ma la lacuna macroscopica di questa parte della riforma sta nel non avere affrontato di petto il tema delle Regioni ad autonomia speciale, ovvero Sicilia, Sardegna, Valle D’Aosta, Friuli Venezia Giulia. Superate le ragioni che portarono alla loro istituzione, era più che maturo il tempo per fare un bilancio sull’utilizzo che della specialità si è fatto nel nostro Paese. E doveva essere la politica più responsabile a farsi carico di questo, intervenendo su situazioni che il Paese non può più tollerare e che producono un solco sempre più profondo tra politica e cittadini. Si pensi ai dati eclatanti come quelli relativi ai costi di gestione della Regione Sicilia che con i suoi 144.000 mila dipendenti spende 1,7 miliardi per amministrare 5 milioni di persone se parametrati, ad esempio, a quelli della Regione Lombardia di circa otto volte inferiori, con una popolazione pari al doppio della Sicilia.
Ma così non è andata. Anzi, gli spazi di autonomia riservati alle Regioni speciali non solo non sono stati toccati, ma risultano, paradossalmente, addirittura blindati. Infatti — non molti lo sanno — nelle disposizioni transitorie si stabilisce che le disposizioni della riforma non si applicano alle Regioni speciali e Province autonome «fino alla revisione dei rispettivi statuti sulla base di intese». E, dunque, quando mai le Regioni speciali presteranno il proprio consenso a modifiche statutarie in linea con la nuova riforma costituzionale che sarebbe sensibilmente peggiorativa delle loro condizioni di privilegio?
Neppure si è previsto per le Regioni speciali ciò che si applica oggi per le Regioni ordinarie, dopo la riforma costituzionale del 2012, e cioè che l’autonomia di entrata e di spesa si esercita nel rispetto dell’equilibrio dei bilanci e concorrendo con lo Stato e con gli altri enti territoriali ad assicurare l’osservanza dei vincoli economici e finanziari derivanti dall’ordinamento dell’Ue. Inoltre alle Regioni speciali non si applicano gli indicatori dei «costi standard», invece imposti alle Regioni ordinarie dal nuovo art. 119. Insomma, le Regioni speciali faranno sempre di più quello che vogliono. Una ipoteca pesante che, insieme alle incongruenze sopra messe in luce, pone non pochi interrogativi sugli esiti della riforma del regionalismo. La cui ratio è, invece, nelle sue linee generali, condivisibile.
La questione irrisolta La lacuna macroscopica è il non aver affrontato di petto il tema delle Regioni ad autonomia speciale. Anzi i loro spazi saranno blindati