Quando Siviero rivoleva quei quadri E la Cia disse no
Nel giallo degli otto capi d’opera fiorentini finiti a Belgrado dopo esser passai dalla collezione di Hermann Wilhelm Göring un ruolo di non poco conto lo ebbe Rodolfo Siviero. Non già nella loro sottrazione all’Italia, come è evidente, quanto nel tentativo di riportarli a casa, dopo la seconda guerra mondiale. Che Siviero abbia agito come un «007 dell’arte» per volere dei nostri governi — dal 1946 e fino alla sua morte (1983), lo incaricarono di svolgere una funzione di mediazione con l’America perché gli alleati facessero tornare in Italia le opere qui trafugate — è cosa nota. Che tra quelle su cui «trattò» ci fossero anche le otto opere di Belgrado lo è meno. E però è andata così. È negli anni ‘50 che il ministero degli Esteri italiano, grazie a Siviero, e a indagini compiute anche dagli americani, viene a conoscenza della vicenda: sa che le otto opere fiorentine, transitate al Collecting Point di Monaco, sono state rivendicate in maniera fraudolenta, dalla Jugoslavia. Si attivano più volte canali diplomatici per riportarle a casa, ma senza esito. A quel tempo c’era ancora in ballo la questione di Trieste che — la Storia ricorda — fu risolta con il suo passaggio all’Italia nel ‘54. In questo clima le pressioni per la restituzione all’Italia, dalla Jugoslavia, delle nostre opere doveva sembrare ben poca cosa rispetto al destino della città. Ciò malgrado in più occasioni lo stesso Siviero fece pressioni tanto in Italia, quanto in America, perché si procedesse in questo senso. In un primo momento la «politica» prese tempo per risolvere prima più urgenti problemi diplomatici. A un certo punto le pressioni di Siviero, dovettero essere di tale portata da destare serie preoccupazioni negli Usa che accusarono lo stesso Siviero di fare pubblicità antiamericana. Il resto è storia di oggi.
In più occasioni lui stesso fece pressioni in Italia e in Usa, perché i quadri tornassero nel nostro Paese