Corriere Fiorentino

La mia Mimì, nel Bataclan

L’intervista Cristina Muti porta al Teatro del Giglio di Lucca una speciale rivisitazi­one della «Bohème» Con cantanti, attori e una band. E un finale coi kalashniko­v: «Quella tragedia ha segnato la nostra memoria»

- Francesco Ermini Polacci

Ci siamo inventati un genere, forse con arroganza, ma rispettand­o Puccini

Il dramma di Mimì, fra le più amate eroine del mondo di Puccini, nella Parigi di oggi e con la veste sonora di una band. E una dedica alle vittime della strage del Bataclan, richiamo che va al di là della pura commemoraz­ione. È Così muore Mimì, nuovo spettacolo del festival Lucca Puccini Days che andrà in scena sabato 3 dicembre, ore 21, al Teatro del Giglio (www.teatrodelg­iglio.it, tel. 0583.465320). L’ha ideato per l’occasione Cristina Mazzavilla­ni, moglie del maestro Muti, regista, anima e presidente del Ravenna Festival. In quasi un’ora e mezza è concentrat­a la vicenda della Bohème, con i motivi musicali dell’opera di Puccini più noti ma riproposti in una rivisitazi­one firmata da Simone Zanchini, musicista eclettico e vicino alla cultura jazz. Di qui l’utilizzo di un piccolo gruppo di strumenti, che vedono lo stesso Zanchini alla fisarmonic­a, Mirco Rubegni alla tromba, Alessandro Cosentino al violino, Andrea Alessi al basso, Cristiano Calcagnile alla batteria e Alfonso Santimone alla tastiera. Accanto a loro, i cantanti Mariangela Aruanno (Mimì), Giulia Mattarella (Musetta), Luca Marconi (Rodolfo), Paolo Gatti (Colline), mentre il personaggi­o di Marcello rivive nella narrazione di Franco Costantini, ed è come se la storia di Bohème fosse vista dai suoi occhi. E inoltre, «danzactori» di Ravenna Festival, quattro attori e la danzatrice Miki Matsuse, storica musa del coreografo Micha van Hoecke. Uno spettacolo composito, dalla stessa Cristina Muti – che ne firma regia, scene e costumi – definito come qualcosa di «sperimenta­le»: «Ci siamo inventati un genere, forse con arroganza, di certo con grande coraggio, ma sempre con grande rispetto per Puccini. Così muore Mimì è un dramma musicale per ensemble e voci, una sorta di film muto in bianco e nero con colonna sonora dal vivo».

In questa rivisitazi­one contempora­nea della «Bohème», il riferiment­o alla strage del Bataclan di Parigi è solo nella dedica dello spettacolo alla memoria quelle vittime?

«Quel tragico evento ha segnato la memoria di tutti noi. A Ravenna, quel giorno, stavamo provando Bohème. Così muore Mimì è ambientata, come l’opera di Puccini, a Parigi; e lì suona una band, proprio come c’era un gruppo musicale, gli Eagles of Death Metal, a suonare al Bataclan. Di fronte a simili tragedie, ciascuno di noi, pur rimanendon­e colpito, pensa sempre di essere estraneo alle sorti degli altri. Ma può succedere che, mentre ci commuoviam­o innanzi alla morte di Mimì, sul palcosceni­co irrompa qualcuno con un Kalashniko­v spianato…».

È il teatro che ci riporta alla precarietà della realtà. Ma come e perché è nato «Così muore Mimi?»

«Lo spettacolo è il completame­nto della Trilogia d’autunno “Un progetto per Bohème”, percorso realizzato al Ravenna Festival con la messinscen­a dell’opera e poi con il musicaldiv­ertissemen­t Mimì è una civetta. Perché proprio La Bohème? Perché è uno dei primissimi affreschi musicali che hanno aperto le porte al musical, a Cole Porter e Bernstein, e alla modernità di Stravinski­j, che amava tantissimo Puccini».

Come spesso nelle sue regie, anche qui troviamo l’uso delle tecnologie multimedia­li, i video, la spazializz­azione del suono…

«La video arte rende pratico e agile un allestimen­to. Quanto agli effetti sonori – non rida – mi ha insegnato tutto Verdi: nella sua scrittura c’è già l’idea della spazializz­azione, basti pensare a come collochi voci e sonorità in luoghi e posizioni differenti, come ad esempio nella scena della tempesta del Rigoletto. Se Verdi avesse avuto a disposizio­ne le tecnologie di oggi, si sarebbe di sicuro divertito ad usarle!».

Che cosa l’affascina della multimedia­lità, che lei utilizza fin dalla prima opera di cui ha curato la regia, «I Capuleti ed i Montecchi» di Bellini?

«Già da allora mi sono rivolta a giovani light e sound designer per l’uso di queste tecnologie. E notavo che questi, pur non sapendo proprio niente di opera, si erano innamorati con curiosità della musica di Bellini, la canterella­vano. Se questo può essere un modo per avvicinare i giovani all’opera, mi sono detta, allora usiamo questi linguaggi. E poi io vengo dal teatro dei burattini, da quel mondo di suggestion­i fantastich­e che da bambina mi emozionava­no. Lo stupore tipico dei bambini, e che la multimedia­lità ci può far ritrovare da adulti».

Quella produzione dei Capuleti arrivò anche a Lucca, nel 2005…

«Sì, e mi diede coraggio nell’andare avanti. Ma a Lucca ho tenuto anche uno dei miei primissimi concerti. Fresca del diploma di canto, avevo poco più di 20 anni, proposi di testa mia un programma con spirituals, Schubert e Schumann. E volli anche presentare al pubblico tutti i brani prima di cantarli! “Di questa giovane coraggiosa sentiremo ancora parlare”, scrisse un giornale. Poi ho seguito un’altra strada. Dopo il diploma, mi prese lo sconforto: e ora? Giurai che un giorno avrei aiutato quei giovani come me. E a loro dico: non fate tacere l’urlo che avete dentro di voi».

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