«Mio figlio Sabri, l’Isis e la sua camera vuota»
Alla Compagnia la madre del ragazzo morto in Siria
i suoi torelli Rangaa e Patangaa, considerati parte della propria famiglia; l’uomo, disperato, farà di tutto per ritrovare i due animali, fino a coinvolgere la stampa locale.
In chiusura, l’attrice bollywodiana Radhika Apte presenterà in sala Parched di Leena Yadav, film tutto al femminile, ambientato nel coloratissimo Rajasthan, che racconta le vicende di quattro giovani donne alla ricerca della propria identità. Tra gli eventi speciali: la mostra fotografica Concrete Flowers di Francesca Manolino (alla Fondazione Studio Marangoni fino al 31 gennaio) e il corso di cucina indiana tenuto dalla chef Angela Alessi (alla scuola di cucina di Cescot).
Nella sua stanza ci sono ancora i videogiochi e l’iPod, i gagliardetti ricevuti nei tornei sportivi e le foto che lo ritraggono felice insieme ai genitori. E poi i vestiti dentro l’armadio, le lenzuola sopra il letto. Lui però non c’è più, da Bruxelles è partito per la Siria senza lasciare neppure un messaggio. Voleva arruolarsi come combattente dell’Isis. È morto trafitto da un proiettile. Sembrava un ragazzo come tanti altri Sabri, 19 anni. Sembrava felice nella sua famiglia. Invece qualcosa è andato storto e ancora oggi, a distanza di tre anni dalla sua partenza, la madre Saliha Ben Ali, assistente sociale, non riesce a trovare una spiegazione plausibile al gesto del figlio. E continua ad aggirarsi senza pace nella sua cameretta, rimasta vuota. Si chiama propria così, La camera vuota, il documentario in programma stasera alle 21.30 al Festival dei Popoli alla Compagnia, racconto in presa diretta delle madri dei giovani jihadisti partiti per la Siria. Madri disperate, che vivono tra Molenbeek e Parigi, accomunate da un tragico destino comune. Il docul’estremismo mentario, firmato dalla regista Jasna Krajinovic, segue da vicino gli stati d’animo della famiglia di Sabri. Una famiglia benestante, moderna, sconvolta dall’inaspettata fuga del figlio. Racconta la madre: «Un giorno venne da me e disse: posso partire per un matrimonio islamico? Certo che ci puoi andare, risposi stupita, non immaginavo assolutamente che intendesse partire per il jihad». Sabri è partito senza preavviso: «Dopo la sua morte, non abbiamo mai recuperato il suo corpo. Non c’è stato una notifica del decesso, nessun registro, niente». Soltanto una chiamata anonima dalla Siria sul cellulare del padre: «Congratulazioni, suo figlio è morto martire». Oggi Saliha ha fondato l’associazione «Save Belgium» per combattere delle periferie europee. «Svolgiamo un lavoro di prevenzione e di sensibilizzazione dei giovani. Creiamo uno spazio di accompagnamento, di ascolto, di consiglio e di scambio di informazioni. Il processo di radicalizzazione è complesso. È necessario avere gli strumenti per comprendere e codificare i segnali che arrivano da questi nostri ragazzi». Saliha gira il mondo per portare la sua testimonianza, e stasera sarà a Firenze insieme a Samira Laakel, altra madre di una ragazza partita per la guerra santa al centro dell’altro corto in programma, Ma fille Nora. «Questo è il mio modo di restare in piedi: le conferenze, i dibattiti, gli incontri all’estero — conclude — Lo faccio affinché la morte di mio figlio non sia avvenuta invano. Dopo un evento come questo, perdi tutto: i tuoi riferimenti, le tue credenze, le tue speranze. Ci aggrappiamo a ciò che possiamo. E il fatto di incontrarsi, di confrontarsi tra genitori e opinione pubblica, ci sta aiutando moltissimo».
Ricordo «Un giorno venne da me e mi disse: posso partire per un matrimonio islamico?»