PREMIER CHE VA, SINDACO CHE RESTA
Il sole è sorto anche ieri, naturalmente, ma ha illuminato un’Italia radicalmente cambiata. Di sicuro c’è, prima di tutto, la caduta di Matteo Renzi dopo mille giorni trascorsi a Palazzo Chigi, travolto dal referendum che ha cancellato una riforma della Costituzione varata faticosamente, senza una maggioranza forte, stabile e dichiarata in grado di sostenerla dall’inizio alla fine. L’approvazione della riforma nei due rami del Parlamento fu una sorta di mezzo miracolo, ma ha esposto Renzi al fuoco concentrico dei grillini, delle destre, di Forza Italia, ma anche della sinistra del Pd, furiosa per la convergenza con Denis Verdini. E gli elettori non hanno completato il miracolo. L’errore di calcolo del premier è scaturito da quello che con brillante metafora Aldo Cazzullo ha definito ieri sul Corriere della Sera il «peccato originale» di Renzi: avere accettato di prendere il timone del Paese in emergenza, senza un voto popolare e, di conseguenza, una maggioranza parlamentare solida e affidabile, di renziani convinti. Poi sono venuti gli altri sbagli, dalla distruttiva crisi delle banche alla pessima gestione della riforma della scuola. Ma soprattutto è venuta meno l’immagine del rottamatore che interpretava con coerenza la voglia di cambiamento del Paese, di criteri diversi e anche di un nuovo stile di governo.
Dopo l’addio a Palazzo Chigi, annunciato con un discorso notturno che ha sorpreso molti per la sua efficacia (niente fronzoli, niente se e molta emozione), Renzi dovrà ora affrontare la partita interna al Pd. C’è da credere che lui non si tirerà indietro solo se ci saranno le condizioni per un rilancio pieno della sfida riformista prima del congresso e delle elezioni anticipate (vicinissime, speriamo), ripartendo idealmente da due città che lo hanno premiato nelle urne: Firenze e Milano, la città dell’Expo, la punta di un’Italia che cerca comunque di guardare avanti. Con il suo 56,3% di Sì alla nuova Costituzione, Firenze resta la capitale del renzismo, ma è come una capitale assediata che perde i riflettori accesi dall’ex premier mentre sono ancora aperte le sue pratiche più delicate: la nuova pista dell’aeroporto, il tunnel della Tav, il completamento delle tramvie e il collegamento centro-periferia. Un banco di prova assai impegnativo per il sindaco. In compenso nessuno potrà più accusare Dario Nardella di governare Firenze secondo i desideri del capo del governo. In ogni caso per Palazzo Vecchio è un giro di boa.