«Io e l’Alluvione, con le aragoste vive»
Il passato, il presente, il futuro: una nuova serie dedicata ai fiorentini Ludovica Sebregondi: «Vorrei una città moderna nella tradizione, e attenta ai giovani»
Ludovica Sebregondi è storica dell’arte; il suo impegno principale è quello di curatrice della Fondazione Palazzo Strozzi, ed è membro del comitato di indirizzo della Fondazione CR Firenze. Ha scritto decine di libri e articoli sull’arte, gli artisti e sul binomio arte-cucina.
Arrivo a Palazzo Strozzi, e la dottoressa Sebregondi (lasciatemelo dire, una delle donne più eleganti di Firenze) mi accompagna a vedere la bella mostra di Ai Weiwei, facendomi da guida con l’entusiasmo di una ragazzina… Un vero piacere. Dopo scendiamo al bar nel cortile del Palazzo, e ci mettiamo a parlare di fronte a due coppe di prosecco.
C’è qualcosa della Firenze della sua infanzia che le suscita una forte nostalgia?
«Premetto che vivo nello stesso edificio da sempre: si accede da via Ghibellina, ma dall’altro lato c’è via del Fico. Praticamente due mondi, da una parte le importanti e severe facciate dei palazzi, dall’altra il retro che si trasforma in edificio popolare. La premessa è necessaria per capire cosa suscita nostalgia: il ricordo della vita che si svolgeva nelle botteghe degli artigiani e nei piccoli negozi di alimentari; la maggior coesione sociale, senza distinzione tra i quartieri residenziali e quelli del lavoro. Ci si conosceva, le persone vivevano e spesso morivano nella stessa casa. Mi mancano so- prattutto i suoni che si sentivano in via del Fico e la vita che vi si svolgeva. Il grido del lattaio o del fornaio che avvertiva del suo arrivo le persone anziane che, non volendo scendere le scale strette e ripide, calavano dalla finestra un cestino per un quotidiano servizio “a domicilio”. Voci di chi parlava da finestra a finestra, i commenti delle signore affacciate perennemente che sapevano tutto di te. Rassicurante da bambina, ma molto, molto seccante da ragazza».
Ricorda un aneddoto vissuto a quell’epoca?
«I ricordi emergono sul vissuto personale e sono spesso legati alla severità dell’educazione, ma sempre connessi a Firenze. Mi ricordo la nonna paterna, poco paziente con noi bambini, che davanti alla lapide in piazza della Signoria che commemora la morte di Savonarola, ci diceva: “Ecco la fine che fanno i piagnoni”. La morte di quel pover’uomo impiccato e poi bruciato perché era piagnucolone come me, mi colpì tanto che, diventata adulta, ho studiato la sua iconografia e mi sono guardata bene dal lamentarmi». A suo avviso, quali sono le differenze più profonde tra la Firenze della sua infanzia e quella di oggi?
«La maggior differenza è lo svuotamento del centro della città, la disgregazione del suo tessuto sociale. L’allontanamento degli abitanti ha avuto inizio subito dopo un evento drammatico: l’alluvione del 1966. Impossibile continuare ad abitare in case che erano state devastate dall’acqua; la scelta fu quella di allontanarsi dal centro. Oggi sono poche le famiglie che ci vivono ed è una volontà precisa continuare a farlo, e le abitazioni, ristrutturate, sono frequentemente affittate a turisti. Le botteghe di alimentari sono state sostituite da negozi della grande distribuzione e da market che vendono soprattutto alcolici. Si è così perso il dialogo all’interno della città, che ha visto trasferirsi in periferia l’Università, il Palazzo di Giustizia, le caserme, e numerosi edifici sono rimasti vuoti, in attesa di una destinazione adeguata. Non più fulcro della vita sociale, il centro di giorno è invaso da masse di turisti “mordi e fuggi” (importanti per l’economia cittadina, ma che dovrebbero accompagnarsi maggiormente a un turismo culturale), la sera e la notte soprattutto da studenti delle università straniere, con i conseguenti problemi per gli abitanti. L’avvento di un’economia legata alla rete ha fatto il resto: il venerdì mattina piazza della Signoria era invasa dai fattori e dai contadini per il mercato agricolo. Non a caso la Cassa di Risparmio di Firenze ha ancora oggi nella piazza la sua “Filiale Agraria”. Ma che senso avrebbe incontrarsi all’ombra del monumento a Cosimo de’ Medici, quando è possibile controllare il mercato globale della produzione agricola sul proprio cellulare?».
A questo punto mi viene da chiederle: come vede la Firenze del futuro? Cioè, come immagina che sarà e come invece le piacerebbe che diventasse?
«Mi è difficile immaginarla, ma guardando a ciò che oggi c’è di positivo, auspico gli scenari di domani. Vorrei che si riuscisse a coniugare e a gestire il crescente flusso turistico preservando la qualità di vita degli abitanti e anche a offrire ai giovani occasioni di lavoro. Si potrebbe partire da eventi degli ultimi tempi: in un anno si sono aperti il Museo dell’Opera del Duomo e quello degli Innocenti, confermando che la città può essere attenta al proprio passato, ma pronta a recepire le innovazioni. Altra direzione da seguire è lo sviluppo (e non la contrazione) di realtà d’eccellenza come l’Opificio delle Pietre Dure. Inoltre Firenze deve mettersi in rete e, dunque, come non pensare a Nana Bianca, l’incubatore e acceleratore per start up che troverà una nuova sede nell’ex Caserma Cavalli: quell’edificio d’Oltrarno, dove i ragazzi affrontavano la visita di leva, spesso inventandosi i trucchi più fantasiosi per essere “riformati”. Oggi sta per trasformarsi in un luogo accogliente che a tanti giovani permetterà invece di lavorare».
Entriamo nel mondo della fantasia… Se lei avesse la lampada di Aladino, dunque possibilità illimitate, quale desiderio esprimerebbe per questa città?
«Vorrei una città moderna, in cui vengano superate le difficoltà imposte dal retaggio del passato (e ci vorrebbe davvero la lampada di Aladino per affrontare le ingentissime spese necessarie per farlo in modo rapido ed efficiente), ma in cui la tradizione rappresenti l’humus su cui farla ri-fiorire».
Per finire, un suo ricordo personale dell’Alluvione…
«Essendo in vacanza ero dalla nonna in Romagna, dunque dell’alluvione vera e propria non ho ricordi diretti. Mi hanno però sempre raccontato che due giorni dopo giunsero da Scauri provviste alimentari insolite: i responsabili di una fabbrica di cui mio padre si occupava portarono aragoste vive. Quasi una commedia dell’assurdo, dato che mancava tutto, persino l’acqua in cui cuocerle. Ma il racconto di questo cibo inconsueto e della sua complicata preparazione, sono per me rimasti legati a quel drammatico evento».
1. Continua
Via del Fico Mi manca la vita che c’era qui, le voci di chi parlava dalla finestra, i commenti delle signore La lapide di Savonarola Ricordo ancora le parole di mia nonna che a noi bambini diceva: ecco la fine che fanno i piagnoni I nuovi musei Il Duomo, gli Innocenti: la città può guardare al passato e essere pronta a recepire le innovazioni