VIA MAESTRA E SCORCIATOIE
Chissà se ieri a Palazzo Chigi qualcuno si sarà messo a fare gli scatoloni al posto e per conto del presidente del Consiglio dimissionario. Lui anche ieri sembrava preoccupato soprattutto di piazzare più fedelissimi possibile nel governo che sostituirà il suo, in una ridda di voci sui nomi dei nuovi (o vecchi) ministri e sottosegretari. Come se per Renzi & C. in palio ci fosse l’avvio febbrile di una stagione nuova e non la gestione di una sconfitta bruciante, qual è stato il risultato del referendum. Nei prossimi mesi ci sono nomine importanti da fare, hanno scritto alcuni osservatori per spiegare l’attivismo del premier uscente allo scopo di mantenere il controllo sulla cabina di regia. In vista ci sono partite delicate, è vero. Partite però di puro potere, che logora chi non ce l’ha secondo la massima di Giulio Andreotti, ma che non sempre dà un buon effetto al momento del voto popolare. Tanto più se prima se ne è proclamato il massimo distacco.
In vista del suo ritorno sulle piazze, per dar battaglia dentro e fuori il Pd, Renzi dovrebbe piuttosto concentrarsi sull’analisi della vittoria del No e sugli errori e le lacune dei suoi mille giorni alla guida del governo. Sono state tre le regioni che hanno votato come Renzi chiedeva: Toscana, Emilia Romagna e Trentino-Alto Adige, mentre tra le città più importanti è stata Firenze la capofila del Sì. Ma forse il risultato più significativo per Renzi è stato quello di Milano, in controtendenza rispetto al resto della Lombardia (oltre che dell’Italia). Ed è da qui che dovrebbe ricominciare la sfida di un Pd autenticamente riformatore, deciso ad affrontare la battaglia (quella decisiva, probabilmente) contro quel populismo che anche in Italia tenta di fare il colpaccio, dilagando a destra come a sinistra. Una ripartenza dalle capitali del Sì, dunque, ma anche —di contro— dall’Italia del no. Da quelle regioni e città che hanno espresso un rifiuto secco della politica del governo. L’atlante geo-economico della penisola parla chiaro: a favore di Renzi hanno votato solo pezzi dell’Italia che sta meglio economicamente, più dinamica, con meno tensioni sociali e più alta qualità della vita, con prospettive incoraggianti in termini di occupazione e investimenti. Milano —come oggi si legge nel servizio di Goffredo Pistelli a pagina — pensa di avere le carte in regola per sostituirsi a Londra dopo Brexit e non si sentiva beffata dall’ottimismo predicato ogni giorno da Renzi, come s’è visto nelle urne.
Ma la gran parte del Paese, soprattutto il Sud, che stenta a vedere i segni di una qualsiasi svolta? Il caso più emblematico è forse proprio quello della Toscana, divisa verticalmente, con le province della Costa schierate sul fronte del No. Non casualmente. È lì che, come abbiamo cercato di spiegare nei giorni scorsi, la crisi ha picchiato più duro; è lì che stenta a perdere forma un rilancio fatto di industria, ma anche di turismo (a patto di crederci sul serio). Queste le due Toscane, e le due Italie, che Renzi ha di fronte. E che lui dovrebbe in qualche modo riunificare con un disegno politico meditato e credibile, più robusto delle volatili strategie di marketing elettorale. Altra strada non c’è per non passare la mano quando gli italiani potranno finalmente tornare a votare. Sulle scorciatoie spesso si scivola.