L’altra capitale del Sì Milano laboratorio del renzismo applicato
Caduto il Renzi I, il renzismo resiste a Firenze, certo, e tiene in Toscana, dove aveva d’altra parte vinto già le primarie del 2012, per poi spazzolare la vecchia sinistra in quelle, congressuali, dell’anno dopo.
Ma è a Nord che la teoria e la prassi del Rottamatore ha trovato il suo laboratorio: Milano. Nella grandinata di No che si sono abbattuti su tutto il Settentrione, la Lombardia non ha fatto eccezione ma Milano è risultata, per Renzi, illuminata dal sole del Sì. «Questa è una città pragmatica, ha capito che ci stiamo giocando anni importanti», spiega al Corriere Fiorentino Ada Lucia De Cesaris, a lungo assessore all’Urbanistica nella sindacatura di Giuliano Pisapia, di cui era vice. De Cesaris, una delle artefici della campagna vincente del sindaco Beppe Sala nel maggio scorso, aveva ripreso la tessera del Pd, abbandonata dopo Walter Veltroni, quando Renzi aveva tentato l’assalto al Nazareno e oggi dice: «Non l’ho ancora rinnovata: se mi buttano fuori Matteo, esco anche io». Per De Cesaris, «Milano aveva capito, che un processo di semplificazione, di migliore funzionamento del sistema del decentramento e della politica stessa, era positivo per il Paese». Insomma il capoluogo lombardo non s’è opposto a Renzi come altre metropoli, perché «non si oppone mai al cambiamento». All’inizio, peraltro, la città aveva guardato con sufficienza l’irruente sindaco di Firenze. Quando, nel febbraio 2011, presentò alla Triennale il suo primo libro nazionale, Fuori! (Rizzoli), della Milano che contava c’erano solo Francesco Micheli, finanziere illuminato, ma che accompagnava Francesca Colombo, sua compagna, allora a capo del Maggio musicale, ed Enzo Manes, finanziere pure lui, ma anche patron della fiorentina Kme. Quella che si mise paziente in fila per farsi autografare il libro era gente semplice, giovani soprattutto. Gli stessi che, nel novembre dell’anno dopo, avrebbero preso d’assalto il Teatro Dal Verme, per un comizio che spaventò persino l’establishment piddino di Pier Luigi Bersani, così come avrebbe preoccupato, fino al famoso impropero delle Cayman, un altro evento milanese di quei giorni: il meeting con la finanza propiziato da David Serra.
Non che avesse conquistato all’istante i finanzieri, Renzi, ma al popolo delle partite Iva agli imprenditori, al non profit e ai professionisti, era cominciato a piacere subito, perché parlava, come loro, il linguaggio della modernità. Un’intesa che neppure tre anni di governo sembrano avere scalfito.
In quel teatro c’era anche la giovane consigliera comunale Anna Scavuzzo, un passato di scout come il sindaco che parlava in maniche di camicia sul palco. Oggi Scavuzzo, classe 1976, è la vice di Sala, nonché assessore all’Istruzione. Entrata nel Pd «perché Matteo me lo ha chiesto», volto acqua e sapone, metodica e appassionata, Scavuzzo è il testimonial meneghino perfetto del renzismo, senza averne l’arroganza. Un po’ come Pietro Bussolati, 34 anni, leopoldino antemarcia, che governa il partito metropolitano, avendo messo d’accordo anche i franceschiniani di Area Dem. «A Milano ha vinto il Sì», dice senza dissimulare la fierezza, «perché siamo stati capaci di far discutere la città sul merito della riforma. Milano — aggiunge — si conferma all’avanguardia nell’innovazione politica».
Fra quelli del Dal Verme c’era anche Alessandro Alfieri, classe 1972, che milanese non è, anzi è varesino, ma a Milano si è formato, in Bocconi, e in città frequenta i luoghi della politica che conta: il Pirellone, dove è capogruppo dem in consiglio, e la non lontana ma più anonima sede del Pd lombardo, al numero 11 di via Pirelli, dove fa il segretario regionale. Alfieri, che potrebbe essere il candidato prossime regionali, era lettiano ma abbandonò il leader pisano nelle primarie 2012, per schierarsi con Renzi, mentre Letta scelse Bersani.
A Milano, però, il renziano numero uno è proprio lui, il sindaco Sala, manager milanese, 58 anni. Col premier si intese a prima vista, portandolo in giro, per i padiglioni dell’Esposizione universale, con Agnese e i bambini. Fu lì, secondo alcuni, che Renzi lo convinse ad accettare la candidatura. Archiviati abito scuro e cravatta, mister Expo sfoderò un maglioncino a girocollo con le becche della camicia fuori, e batté palmo a palmo le periferie, con pazienza. Oggi governa la città più europea d’Italia. E la più renziana. Renzi riparte idealmente da quassù. Qualche avversario potrà, sardonicamente, avventurarsi in paragoni mussoliniani, ricordando il «discorso della riscossa», che il Duce pronunciò al teatro Lirico, per capitolare pochi mesi dopo. La storia recente però individuava nell’incapacità del Pd ante-Renzi di sintonizzarsi con questa città il vero macigno che gli impediva la strada del governo del Paese. Si poteva avere il Sud ma, senza Milano, era difficile governare l’Italia. E anche oggi, che sembra aver perso il Mezzogiorno, Renzi lo sa.