Corriere Fiorentino

Condanna Menarini, il giudice spiega: «Lucia e Giovanni come il padre»

- V.M.

«Il sistema governato dal presidente della Menarini Alberto Aleotti, vertice assoluto ma non onnipotent­e né onniscient­e, venne partecipat­o dai figli Lucia e Alberto in una progressio­ne che dalla naturale ignoranza della giovane età si estese alla connivenza fino al deliberato contributo alla gestione e all’impiego del denaro accumulato con la costante di ostacolarn­e, in ogni modo, la conosciuta provenienz­a illecita. Tutto per accrescere il patrimonio familiare e consolidar­e le attività imprendito­riali». È un brano della sentenza che ha condannato lo scorso 9 settembre la presidente della casa farmaceuti­ca Lucia Aleotti (10 anni per riciclaggi­o di denaro provenient­e da frode fiscale e corruzione ) e il fratello Alberto Giovanni (7 anni per riciclaggi­o). Nelle 172 pagine di motivazion­e (depositata dal presidente Francesco Gratteri a tempo di record) è ricostruit­a la vicenda e soprattutt­o i ruoli, a partire da quello del patron Alberto. Lui, secondo la procura e i giudici, è l’architetto del castello di società off shore e del sistema di sovrafattu­razione che gli ha consentito di accumulare immense ricchezze. I figli, secondo il tribunale, hanno continuato l’opera di riciclaggi­o, facendo rientrare in Italia con due scudi fiscali i capitali detenuti all’estero. «La graduale ascesa di Lucia e Giovanni alle posizioni apicali — spiega Gratteri — fu prevista e voluta dal Alberto Aleotti e da loro accettata e condivisa in una logica di ricambio generazion­ale e di progressiv­o avvicendam­ento». Pronta la reazione dei difensori di Lucia e Alberto Aleotti, gli avvocati Roberto Cordeiro Guerra e Sandro Traversi: «Risulta che l’aver utilizzato una legge dello Stato italiano per far emergere con lo scudo fiscale capitali detenuti all’estero molti anni fa, sia considerat­a una forma di riciclaggi­o. Ciò in assenza di qualunque atto o volontà di occultamen­to da parte dei nostri assistiti. Dimostrere­mo in appello l’ingiustizi­a di questa condanna».

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