RIVINCITA O RIPARTENZA?
Chissà se Matteo Renzi avrà seguito in diretta il dibattito sulla fiducia a Paolo Gentiloni.
L’aula di Montecitorio semivuota e poi gli insulti, gli striscioni, le assenze finali: forse la scena, a dir poco deludente, potrebbe avere suggerito all’ex presidente del Consiglio qualche riflessione utile sulla situazione politica dopo il referendum del 4 dicembre.
C’è una considerazione a cui Renzi non può sfuggire: l’esito di quel voto (qualsiasi sia il giudizio che ne vogliamo dare) è una sconfitta che appartiene alla sua responsabilità. Ed è una conclusione drammatica di un’idea di riforma dell’Italia che lui aveva indicato fin dall’inizio della propria avventura, nelle stanze di Palazzo Vecchio. La grande maggioranza degli italiani l’ha rifiutata e Renzi, a dire la verità, aveva dato l’impressione di aver capito la lezione con quel discorso in piena notte con cui, solo un'ora dopo la chiusura dei seggi, aveva annunciato le dimissioni del governo, riscuotendo apprezzamenti anche oltre la cerchia dei suoi simpatizzanti o sostenitori . Sembrava che gli fosse apparsa chiaramente la necessità di ritrarsi dai palazzi del potere, di lasciare al Capo dello Stato la gestione piena di una fase di discontinuità con il passato, indispensabile non solo al Paese, ma anche allo stesso Renzi, al fine di ricostruire, o meglio di costruire, un progetto politico nuovo per se stesso e per il partito di cui resta alla guida (per ora, almeno). Al tempo stesso quelle parole sembravano indicare la volontà di lavorare a un vero congresso del Pd e non a una semplice ripetizione di uno scontro frontale, attraverso le primarie, fra correnti e più o meno modesti capi dell’una o dell’altra fazione.
Al contrario, l’agenda di Pontassieve si è riempita (metaforicamente, s’intende) di altre incombenze. E di appunti di altro significato. L’ex rottamatore più che a ritirarsi dalle logiche romane per ripensare ai motivi che gli hanno impedito di portare a compimento quel progetto di riforma delle istituzioni a cui aveva legato il senso più profondo della sua ascesa sul piano politico nazionale, si è concentrato su come andavano confermati o redistribuiti i suoi ministri nella compagine di Gentiloni, compresi i fedelissimi del «Giglio magico» Lotti e Boschi. Addio agenda del Cincinnato riflettente. Ed ecco allora il bravo Gentiloni che, forse, potrà dimostrare doti di leader finora non ben conosciute e poi un governo fotocopia di quello precedente, destinato a dare forza a chi voglia accusare Renzi di non essersi allontanato nemmeno un tantino da Palazzo Chigi. Si è capito benissimo nel dibattito di ieri alla Camera: i Cinque Stelle hanno già cominciato la loro campagna elettorale. Altro che clima più sereno, come ha auspicato il Capo dello Stato.
È un quadro politicamente drammatico nel quale Renzi dovrebbe intraprendere una strada nuova, alla ricerca di nuove idee e di nuove proposte, della ricostruzione di un’immagine di rinnovamento come era stata quella alla base della sua ascesa. Renzi dovrebbe rendere chiaro agli italiani che quello a cui guarda dopo il referendum è una ripartenza politica e culturale (cercando di associare al suo progetto energie diverse e una classe dirigente vera, di spessore).
Un leader a cui capita, dopo anni di primazia indiscussa, un contraccolpo così duro non può pensare di traccheggiare con le attese di un Paese che si è espresso con assoluta chiarezza. Puntare su una riscossa è legittimo. Ma politicamente la rivincita dovrebbe essere l’ultima tappa di un percorso di ricostruzione. Difficile se l’ex sindaco riproporrà, anche a se stesso, il copione giù usato. A Renzi non può bastare la previsione di riuscire ad averla vinta sui suoi avversari dentro il Pd prescindendo da un disegno rinnovato per fare uscire l’Italia dalla crisi e con cui presentarsi al giudizio degli italiani. Ora serve una ripartenza. La rivincita, semmai, seguirà.
L’ex rottamatore dovrebbe fermarsi a riflettere sulle cause della sua caduta e mettere a punto un progetto per l’Italia. Invece continua a seguire logiche romane...