Tarchi: Renzi, il carattere e lo slalom per evitare il referendum sul Jobs Act
Tarchi: per la durata del governo Gentiloni l’incognita del referendum sul Jobs Act Ma per evitarlo servono il voto anticipato, e l’intesa sulla legge elettorale non sarà facile
In dieci giorni è cambiato il quadro politico italiano. La vittoria del No al referendum, Renzi che si dimette e Paolo Gentiloni che diventa presidente del Consiglio. Il professor Marco Tarchi: «La legge elettorale? Intesa non facile».
In dieci giorni è cambiato il quadro politico italiano. La vittoria del No al referendum, Renzi che si dimette e Paolo Gentiloni che diventa presidente del Consiglio, il congresso del Pd alle porte. Ne parliamo con il professor Marco Tarchi, politologo e docente di Scienza della Politica alla «Cesare Alfieri» di Firenze.
Professore, quanto durerà questo governo?
«Pare si voglia farlo arrivare non oltre aprile per evitare il referendum sul Jobs Act, in cui un ulteriore no assesterebbe un colpo fatale al nuovo esecutivo, per l’evidente continuità con il precedente, e alle ambizioni di Renzi. L’ipotesi è credibile, ma c’è l’incognita dei tempi necessari a cambiare legge elettorale».
Come valuta le mosse di Renzi dopo il referendum?
«Prevedibili e come sempre determinate sia dal carattere del personaggio sia da preoccupazioni strategiche. Dopo le tante dichiarazioni, anche se nessuno poteva credere che si sarebbe ritirato a vita privata, le dimissioni erano obbligate, e mantenerle era necessario a dare un’impressione di relativa coerenza. Anche l’appropriarsi indebitamente del 40% dei Sì era una mossa scontata per scrollarsi di dosso l’immagine del perdente. E il segnale dato al partito con la richiesta di un congresso — e del voto — in tempi brevi è un avviso chiarissimo: da qui non mi smuoverete».
Aver lasciato il «Giglio magico» al governo è stata una manifestazione di forza («comando ancora io») o di debolezza (paura di perdere il controllo)?
«In generale, l’aver favorito la scelta di un fedelissimo alla testa del governo e di una compagine ministeriale in fotocopia è un segnale di non voler mollare la presa. È evidente che, per certi versi, comanda ancora lui: se si eccettua lo sgambetto (temporaneo?) a Verdini e ai suoi, Gentiloni si regge su una maggioranza che al Senato esiste solo perché Renzi l’ha creata con eletti di altri partiti, che possono sperare in un futuro politico solo se Renzi resta alla guida del Pd, perché al momento delle elezioni, a meno del ritorno di un proporzionale puro, solo la cooptazione in liste di “partito della nazione” eviterà loro l’uscita dal Parlamento».
Si riuscirà a varare una nuova legge elettorale?
«L’incognita del verdetto della Corte costituzionale è una pietra d’inciampo non da poco. E poiché i sistemi elettorali vengono sempre scelti dai partiti in funzione del proprio tornaconto, non sarà facile trovare un accordo in una situazione in cui ciascuna delle formule sul tavolo avvantaggia fortemente gli uni (o l’uno) e danneggia altrettanto gli altri. Si può ipotizzare un asse d’intesa Pd-centristi-Forza Italia. Un mini-Nazareno. Ma in tal caso Meloni e Salvini non potrebbero digerirlo».
Con la vittoria del No si è fermato per sempre il processo di riforma istituzionale?
«Non lo penso. Resta il fatto che sin qui le varie forze politiche non sono riuscite, né prima di Tangentopoli né dopo, a individuare mediazioni e compromessi tali da riuscire a presentare un progetto complessivo di riforma che desse l’idea di una larga condivisione. Eppure, già negli anni Ottanta erano circolate proposte interessanti in questo senso. Il “Gruppo di Milano”, che includeva studiosi di tendenze diverse, aveva gettato basi su cui costruire un impianto di gran lunga migliore del testo pasticciato bocciato dal referendum».
Renzi-ripartenza. Parla di congresso, di un nuovo «viag- gio» in Italia, di un nuovo libro...
«Con i libri, in politica, non si conquistano consensi né fama. Anche perché spesso li scrivono altri (e il risultato è di regola migliore). I viaggi servono a scaldare i cuori dei già convinti, ma spostano poco e nulla negli altri. I congressi, invece, possono contare molto, ed è certamente il caso del Pd. Ma lì non ci sarà solo ripartenza o rivincita. A mio avviso, ci sarà vendetta. Perché al carattere non ci si può ribellare; finisce sempre per prevalere».
Le opposizioni hanno colto un obiettivo: via Renzi. Ma non hanno un disegno politico né un leader convincente. Bel guaio...
«Il problema riguarda solo le opposizioni interne al Pd. Quelle parlamentari hanno progetti diversi e a volte confliggenti, come era noto a tutti coloro che hanno votato No. Ognuna ha un discorso politico e uno o più leader. Non è un guaio; è una caratteristica fisiologica della democrazia. Tocca agli elettori scegliere. Il tempo degli uomini della Provvidenza, si è detto per decenni, è tramontato. È l’occasione per verificare la fondatezza di questa affermazione».
Il Pd si sta avviando alla scissione? Se torna la proporzionale la tentazione della minoranza di uscire sarà forte, come dice Stefano Folli?
«Poiché la minoranza Pd è costituita soprattutto da ex comunisti, che del partito hanno sempre avuto una concezione fra il familiare e il sacro, non ci scommetterei. Certo, però, che se Renzi li mettesse di fatto alla porta dopo il congresso, lo scenario cambierebbe».
Riuscirà il centrodestra a ricompattarsi?
«Integralmente, no di certo. L’intesa Lega Nord-FdI-Forza Italia dipenderà dalla legge elettorale».
I Cinque Stelle sarebbero in grado di prendere in mano il Paese? A loro conviene più il maggioritario o il proporzionale?
«Paradossalmente, quella formula a mio avviso disgraziata che è l’Italicum. Con il maggioritario, comunque, avrebbero molte chance, soprattutto con il doppio turno. Quanto alle capacità di governo, non mi pronuncio mai prima di vederle in atto: deformazione professionale».