Il giorno dopo di Bitossi (in viaggio nella notte)
In viaggio di notte per sfuggire ai rimpianti, l’arrivo nel caldo di Badia a Settimo, le domande Così iniziò il mito dello sconfitto
Si era alzato all’una di notte e aveva svegliato Francioni: «Andiamo via perché io qui impazzisco». Aveva ripercorso il rettilineo di Gap cento volte ed era sempre arrivato secondo. Non ce la faceva più. Così partirono nel buio placido della notte di Briancon, come se la fuga buona fosse quella. «Guido io», disse con un tono che non ammetteva replica. «Almeno faccio qualcosa». I suoi due compagni di viaggio, il gregario fedele Wilmo Francioni e il massaggiatore di fiducia Carbonini, non replicarono.
Passarono i chilometri e l’unica fermata fu quella di Varazze, dove scese il massaggiatore. «Franco, ma un caffeino non si potrebbe prendere» azzardò Francioni dall’alto del suo rapporto di fraterna confidenza: «Meglio di no» e la macchina continuò veloce cercando la strada di casa. Alle dieci del mattino, con il sole alto che sbatteva sugli occhi assonnati, erano a Empoli. Si dettero appuntamento per il primo pomeriggio, dovevano andare a Badia a Settimo, vicino a Scandicci, per partecipare a uno di quei circuiti che di solito si trasformavano in una ben retribuita passerella per corridori di chiara ed anche oscura fama. Per lui, per Franco Bitossi, sarebbe stata la celebrazione della più cocente sconfitta: aveva perso il campionato del mondo per pochi centimetri. Ma l’aveva persa quella corsa irripetibile oppure l’aveva buttata via?
Ero lì, nella vociante calura di Badia a Settimo, per fargli quella domanda e mi dispiaceva. Con me c’era Franco Calamai, il collega della Gazzetta dello Sport, insuperabile non soltanto nel porre le domande, soprattutto quelle scomode, ma anche bravissimo nell’instaurare un rapporto di fiducia con i corridori che davanti a lui ubbidivano senza replicare. Calamai prese una sedia, lì nel circolo o qualunque cosa fosse stato, e ordinò a Bitossi — credo proprio che si potesse considerare un ordine — di mettersi a sedere. Il grande sconfitto aveva occhiali da sole che nascondevano la malinconia dello sguardo, una maglietta da spiaggia , i pantaloni giustamente corti e la bicicletta — al tempo in cui le biciclette erano belle e magre — portata a mano in un modo che modo non era, ma confidenza. La gente lo acclamava, lo consolava e lui aveva trovato la forza per un sorriso.
«Quando si perde così, si perde male», disse. Poteva permettersela quella dolorosa banalità. «È inutile cercare le ragioni, s’è preso una fregatura e basta» . Cercava un modo per assolversi e mentre fuori urlavano il suo nome trovò la sintesi giusta per spiegare la faccenda, una volta per tutte. «Avrò anche sbagliato qualco- sa, avrò sbagliato rapporto, avrò preso paura, sarò stato un pollo, ma quel rettilineo non finiva mai». Continuò con pazienza a rispondere alle domande fino a quando non fu il momento di correre sulle strade calde e piatte, sul quel po’ di salita che chissà se c’era oppure no. Forse vinse, ma che importanza può avere? Tornai al giornale e Bitossi mi trasportò sulla prima pagina della Nazione, grazie al suono clamoroso della sua sconfitta.
Molti anni dopo, in un meraviglioso e assolato giorno d’estate sulle colline toscane, vicino a Empoli, costrinsi Franco Bitossi a raccontarla di nuovo quella sconfitta al Mondiale di Gap. Scese dall’albero dove ritengo stesse controllando lo stato di salute delle sue olive ed era esattamente un coltivatore di olive come lo avrebbe dipinto un buon pittore macchiaiolo. Entrammo in quella casa di campagna: una grande cucina con una penombra mistica e un fiasco di vino sul tavolo. I bicchieri da mescita e i nostri asciutti profili toscani. Era tutto perfetto, compresa qualche inevitabile, doverosa mosca. «Prima si guarda la tappa, poi si parla», disse Bitossi indicando un televisore di una certa età che aveva tutte le caratteristiche per risiedere nell’ambiente.
Finita quella tappa qualunque del Tour costrinsi Bitossi a ripercorrere tutta la sua carriera, fin dai tempi in cui correva per la «Porta Romana», squadra ciclistica fiorentina con cui dalla curva Fiesole lo avevo visto vincere un Giro della Toscana dilettanti che si era concluso allo stadio dopo una partita di campionato.
«Eccolo, è lui, è il Falena» aveva gridato un tizio nelle vicinanze. Neanche Bitossi ha mai saputo perché lo chiamassero col nome di quelle farfalle notturne che vanno a sbattere contro le lampade. Nei paesi circolano anche soprannomi di cui il destinatario ignora le ragioni. C’è stato, nel Mugello, anche chi ha creduto lo chiamassero William per una somiglianza con l’attore William Holden e non perché aveva la testa a pera. Bitossi parlò di Camaioni, il suo paese sull’Arno, e della barca con cui traversava il fiume per andare ad allenarsi. E del suo «cuore matto» che lo aveva costretto tante volte a fermarsi sul ciglio della strada, per la felicità dei fotografi, dei cronisti in cerca di colore e di Sergio Zavoli nell’indimenticabile «Processo alla tappa».
Bitossi guarì appena si sposò, come se il cuore innamorato avesse soppiantato quello matto. E parlammo delle bocce che erano diventate il suo sport preferito: giocava da campione ed aveva tutto per esserlo, a cominciare dalla silenziosa pazienza.
Con il Mondiale del 1972 ormai conviveva pacificamente dopo averne a lungo coltivato il rimpianto. Si era reso conto che la gente ricordava più lui, che aveva perso, piuttosto che Marino Basso che aveva vinto e questo in qualche modo lo ricompensava. E poi esiste, o almeno esisteva, nel ciclismo un’ adorazione sommessa e rispettosa per lo sconfitto, per il corridore perseguitato dalle vittorie mancate.
La fama dell’eterno secondo cominciata con Gateano Belloni, proseguita e trasformata quasi in un’opera d’arte ciclistica da Raymond Poulidor, questa fama è, a suo modo, un riconoscimento che spesso sommerge le vittorie e ne tralascia il conto. Prendete Bitossi: di corse ne ha vinte 144, ma ancora si parla di lui per il giorno in cui ha perso. Era scritto in fondo al rettilineo di Gap che dovesse andare così.