La mistica rottamatrice
Libri Lo storico André Vauchez racconta Caterina da Siena lontano dai ritratti agiografici Trasgressività di una donna inquieta che dall’ambito religioso tendeva «a perdersi nella politica»
L’irruenza del suo profetismo echeggiò nelle prediche di Girolamo Savonarola così come le innovazioni da introdurre per riportare la Chiesa allo stato originario, ma il purificante rinnovamento invocato avrebbe richiesto un «rifiuto dell’istituzione ecclesiale, come sarebbe avvenuto a partire dal decennio 1520-1530 nel quadro della Riforma promossa da Lutero e Calvino».
È questa la netta e perentoria conclusione alla quale approda la ricerca che il medievista francese André Vauchez dedica alla patrona d’Italia nel libro Caterina da Siena. Una mistica
trasgressiva (Laterza, Bari 2016, pp. 214, € 20). È arduo scoprire la verità storica e personale di Caterina di Jacopo, soffocata com’è da una produzione agiografica perlopiù banale e ripetitiva. In queste pagine, invece, le inquietudini di un’esistenza tumultuosa, in bilico tra un irrefrenabile ansia mistica e la voglia di incidere nel presente, tra contemplazione e azione, sono ripercorse criticamente senza cedere a revisionismi drastici.
Caterina – nata a Siena probabilmente nel 1347 in una famiglia di media borghesia cittadina – si ribellò con tutte le sue forze alla madre Lapa, che sognava per lei un rassicurante matrimonio. Al protettivo disegno materno oppose l’obbedienza ai moti della «cella interiore». La sua domestica anacoresi era accompagnata dall’ascolto della predicazione domenicana e dalla frequentazione di brigate che facevano della povertà e della carità comandamenti assoluti. Ad un certo punto la svolta, palese da quando, in coincidenza con il capitolo generale dei frati predicatori riunito a Firenze nel 1374, fu sottoposta ad un esame che ne verificò l’ortodossia. Le fu affiancato, a scanso di equivoci, Raimondo da Capua, da allora suo consigliere e controllore. Tra i due si stabilì un sodalizio che rende impossibile tracciare una linea di divisione tra suggerimenti dell’uno e iniziative della giovane mantellata in sospettabile odore di eresia. Nonostante la sua totale identificazione con l’istituzione ecclesiastica Caterina restò nel mondo dei laici penitenti, forse per la maggior libertà che le permetteva. Rispetto al nascente potere politico dei Comuni non nascose giudizi duri, in ciò marcata da una diffidenza non dissimile da quella che Dante esprimeva verso «la gente nova e’ subiti guadagni». Fu, dunque, «una mistica perdutasi nella politica». Per questa via insorge una «trasgressività» che la spingeva a fuoruscire dall’ambito religioso. Il fatto è che lei non percepiva affatto la distinzione che si andava costituendo tra istituzioni politiche e magistero della Chiesa: secondo Vauchez è «una figura anacronistica», collocabile in «una prospettiva teocratica che aveva perduto ogni attualità». Certo: fu una delle tante donne «ispirate» che in un’epoca confusa di crisi occuparono uno spazio lasciato vuoto dalle nuove formazioni emergenti, ma la statura che ha conquistato – pari a quella di Brigida di Svezia – non è per intero dovuta alla costruzione che ne fece Raimondo nella monumentale biografia, la Legenda maior, elaborata per perorarne la canonizzazione. Il fascino di Caterina è accresciuto dagli interrogativi che lascia aperti. Il suo programma comprendeva tre inseparabili fini: il ritorno del pontefice a Roma avrebbe restaurato una geografia in grado di ridare centralità all’evangelica missione petrina; la complementare «reformatione» della Chiesa era necessaria per cancellare la sottomissione alle trame dei potenti; la Crociata, conclusivamente, avrebbe favorito la riconquista di luoghi occupati dai «cani malvagi infedeli» e assicurato una pacificata ecumenicità. Le cose non andarono – si sa – per il verso auspicato. Il papa si decise a por fine alla «cattività avignonese», ma la conseguenza immediata fu un dilaniante Scisma e non furono in pochi a darne qualche colpa alla mantellata e al suo gruppetto informale di seguaci. Vauchez attenua, e non per ragioni di difesa, la responsabilità di Caterina nella faticosa determinazione assunta dal titubante Gregorio XI di imbarcarci per Roma: le fonti non consentono di misurare l’efficacia esercitata in proposito dalle appassionate lettere che gli aveva indirizzato o dall’incontro avignonese. La riforma immaginata dalla «scrittrice illetterata» di Fontebranda non riguardava le strutture: sarebbe stato sufficiente un cambio di pastori. A Urbano VI consigliò di convocare un «concilio di santi» perché guidasse la navicella fuori dalla tempesta. Gli inviti diramati non ebbero alcun riscontro. Il Santo Passaggio — la Crociata in versione dolce — derivava da una nostalgia ormai fuori contesto.
È azzardato sostenere che per capire Caterina è preferibile affidarsi all’esame di quanto ha fatto più che alle parole dettate, trascritte o scritte con esigente asprezza. Parola e gesto sono insperabili, desideri e sconfitte s’intrecciano consacrando una grandezza «inattuale», contemporanea, non moderna.
Nonostante l’identificazione con l’istituzione ecclesiale restò nel mondo dei laici penitenti