GESÙ BAMBINO NON ERA DEBOLE (QUAL È IL SENSO DEL NATALE)
Un dialogo che li vede divisi tra speranza di misericordia e timore alla notizia dell’Incarnazione. Adamo ed Eva e con loro l’umanità impetrano il perdono di Dio tramite Maria, «poiché al Misericordioso si addice una madre compassionevole». Maria promette una mediazione presso il Figlio, il bambino che è lí, nella mangiatoia, e garantisce della sua misericordia. «Ho provato io stessa la Sua compassione: pur essendo fuoco, Egli ha dimorato in me, il roveto, e non ha bruciato la Sua fragile creatura». Mirabile autentica teologia, nella continuità dell’Antico e del Nuovo testamento (il roveto), con la forza di una professione di fede: quel corpo che è uscito da lei è vero corpo e vera teofania. I testi di Romano devono in qualche modo essere filtrati nella cultura poetica europea a partire dal secondo Ottocento, quando furono resi accessibili. Penso a Hopkins, a T.S.Eliot. Penso al Marien-Leben di Rilke e ai versi iniziali di «Prima della Passione» che mi emozionano sempre, ove il corpo di Maria, risparmiato dalla nascita divina, è devastato dalla visione del Figlio condotto alla croce: «Oh, se questo tu l’hai voluto, non avresti/ dovuto nascere da corpo di donna:/ i salvatori si devono estrarre dalle montagne/ dove durezza scaturisce da durezza./ Non addolora anche te di devastare/ la tua cara valle?», ch’è la Madre stessa. In Romano, Maria avvicinatasi al Bambino «chinò il capo e con rispetto parlò»; chiese che la «misera stirpe» degli uomini, che è la sua, fosse sollevata dalla condanna. «La colpa è del serpente che li ha spogliati della loro dignità. Perciò (gli uomini in Adamo e Eva) mi chiedono di essere rivestiti» nuovamente; immagine profonda della salvezza. In un altro contacio, per l’Epifania, Romano canterà il sole di giustizia che risplende da Betlemme; gli «ignudi figli di Adamo» possono ora rivestirsene. La teofania, la Luce inaccessibile, è apparsa, «riparo per gli ignudi e luce per quanti sono al buio». E nel nostro inno natalizio il Bambino, che è Dio che salva (non dimentichiamolo nel birignao predicatorio che ne fa l’Emigrante, il Marginale, magari l’Orfano), risponde: «O madre, io li salverò per te e attraverso di te. Se io non avessi avuto la volontà di salvarli non avrei preso dimora in te, non avrei fatto uscire da te il mio splendore (…). Ecco, tu vedi e stringi colui che i Cherubini non possono guardare, e mi accarezzi come figlio, Piena di grazia». Perché ricordare questi remoti poemi liturgici? Non solo perché non vi è niente di remoto, ovvero desueto, «morto», nella Tradizione; tutto vi è presente, sempre e ora. Enunciati quali: «Oggi non possiamo più pensare A, credere B, dire C» sono dei falsi. Ma anche per questo: la nostra comprensione cristiana e di conseguenza umana (non è vero l’inverso) del Natale è meno inadeguata se si ricorda, e si intende, che esso celebra l’irruzione di Dio nella finitezza per sé invincibile dell’uomo, nella sua stasi, nonostante il fasto delle novità storiche. Questo avvento che dà le vertigini è fatto per noi, è dunque accettabile dalla nostra natura; siamo roveti che la fiamma non divora. Stravolge tuttavia la nostra misura, e vi qualcosa di poco sano insistere non dialetticamente sulla debolezza e finitezza di Gesù. Il senso cristiano del Natale, proclamato dall’altare (dovrei dire dall’ambone, ma pochi dei praticanti, assidui e non, conoscono questo arcaismo di moda) o dalla stampa di intonazione religiosa, mi pare invece impoverito in una tale direzione «debolistica». Non solo in Romano ma in tutta la tradizione iconografica, orientale e occidentale, della Madonna col Bambino, il Figlio ha fierezza e pienezza, è Dio, che sia frontalmente ammaestrante o dialogante rivolto alla madre. Nel contacio per il Natale (il secondo, per l’esattezza) il piccolo nato è già, e non potrebbe essere altrimenti, il Signore della storia. Ogni altra considerazione e ammaestramento (umiltà e povertà) sono secondari, si dissolvono nella chiacchiera, se omettono di additare il fuoco (e la pietra dura e fondante) che quel corpo di neonato divino è. «Non uscisti da me così violento» dice in Rilke il lamento di Maria; ma Romano introduce già nel colloquio tra Gesù bambino e la madre l’annuncio della Passione («se tu sapessi …») e lo sgomento di Maria, che inizia con una mirabile immagine: «Grappolo mio, fa che non ti schiaccino gli empi (…) fa che io non veda l’uccisione di un figlio». Ma non sarà ascoltata e lo sa. Nella Nascita vi è già tutto.