Sulle tracce del cane (nell’arte)
Il racconto Testimonial dei domenicani, compagno dei pellegrini, status symbol dei magnati fiorentini Viaggio tra levrieri e molossi nelle chiese e nei musei della città, per riscoprire una lunga storia di fedeltà
Al fianco delle star, vestito dagli stilisti, coccolato dai grands bijoutiers, a volte con ricercate acconciature degne delle più spericolate dame del Settecento e persino, ebbene sì, fornito di «hot doll» per soddisfare i suoi istinti primari, l’immagine del cane è ovunque, dai mass media ai social network. Ma è sempre stato così? Una passeggiata sulle sue tracce, tra chiese e musei fiorentini, mostra come sia cambiato il suo ruolo, e può essere l’occasione per ripercorrere alcune pagine dell’arte e della storia della città che forse non tutti ricordano.
In posizione di primo piano nell’antichità, scolpito e dipinto come guardiano, pastore del gregge o compagno di caccia (gli etruschi furono tra i primi a selezionare le razze a seconda della loro destinazione d’uso), il cane scompare quasi del tutto nell’Alto Medioevo per tornare in auge nei primi secoli dell’anno Mille grazie alla «simpatia» che alcuni santi e ordini religiosi nutrirono nei suoi confronti. I Domenicani (Dominicanes, Canes Domini, «Cani del Signore») ne fanno il «testimonial» delle proprie campagne iconografiche, come nella sala del Capitolo di Santa Maria Novella che Andrea di Bonaiuto affresca per esaltare il ruolo cruciale dell’Ordine nella lotta contro gli eretici: un gruppo di cani (1) dal manto pezzato bianco e nero — che richiama i colori dell’abito dei frati, con tonaca e scapolare bianchi e cappa e mantello neri — azzanna lupi e volpi, a simboleggiare la vittoria sull’eresia catara che dall’ultimo trentennio del XII secolo minacciava la stabilità cittadina. A Santa Croce, invece, lo troviamo in una veste più mansueta. Significativa è la scelta di Giovanni da Milano che dipinge un cane che accompagna un pellegrino, come potevano incontrarsi in quegli anni nelle vie della città (2).
Dopo i grandi cicli di affreschi trecenteschi, con la nascita delle corti il cane diventa una presenza costante nel Quattrocento. Un monumento funebre dei primissimi anni del secolo riporta alla memoria, grazie a un cane, la storia delle lotte tra famiglie in una lontana Firenze degli anni del Governo dei Ciompi, com’è visibile in quel che resta del sarcofago di Maso degli Albizzi (3), di scuola del Ghiberti, tagliato a metà nel XVIII secolo e reimpiegato per un altro monumento funebre di famiglia. Vi si scorge il bracco — o «cane moscato», com’è citata questa razza negli inventari della Guardaroba Medicea — che Maso scelse di aggiungere al proprio stemma come simbolo di rivalsa contro la famiglia Alberti. Scenografie d’azione del cane non sono solo le rappresentazioni di battute di caccia, attività prediletta dein gli aristocratici, o i brani di vita quotidiana, come nel Desco da parto col gioco del civettino dello Scheggia, a Palazzo Davanzati, dove due bambini giocano con un pelosissimo cagnetto. Ora lo ritroviamo soprattutto nelle pale d’altare dedicate al tema dell’Adorazione dei Magi, commissionate da importanti mecenati e pretesto per alludere alla propria ricchezza. Basta citare le opere di Cosimo Rosselli (4) o del Ghirlandaio, per scorgere cani che non sono solo comparse, ma veri e propri status symbol della potenza dei magnati fiorentini. Nel corso di questo secolo, però, la vera star è il levriero. Se già nel primo canto dell’Inferno Dante aveva assegnato al veltro — cane da caccia identificato con il levriero — il nobile ruolo di salvatore dell’Italia dalla cupidigia rappresentata dalla lupa, nell’Adorazione dei Magi (5) Gentile da Fabriano dipinge un elegante levriero, splendidamente agghindato di collare e museruola «pastiglia» dorata, al pari delle sfarzose vesti dei personaggi illustri, tra cui il committente e forse suo padrone Palla Strozzi, a quel tempo l’uomo più ricco in città. Ancora due levrieri in alto rilievo, con collari finemente cesellati, campeggiano in primo piano in una formella della Porta del Paradiso (6) di Lorenzo Ghiberti, al seguito di Esaù, di ritorno dalla caccia, vestito come un giovane signorotto del tempo. I documenti attestano che Lorenzo il Magnifico amasse una razza in particolare, il Saluki, o levriero persiano, e che li acquistasse a Costantinopoli per poi esportarli a Firenze, previa autorizzazione del Sultano, pagando cifre da capogiro. In pieno umanesimo, negli anni del recupero dell’antico, il grecista Teodoro Gaza, a cui Poliziano dedicò epigrammi greci ed elegie latine, scrive la Canis Laudatio, sorta di divertissement per eruditi, dove sono elencati gli esempi di celebri cani del passato da storie di Plutarco, Plinio e Platone. Nello stesso giro di anni, Leon Battista Alberti compone l’encomio in latino Canis, impostato sull’esempio della laudatio funebris (l’orazione che i Romani pronunciavano per un defunto illustre) in onore del proprio cane, vittima, come lo erano anche gli uomini all’epoca, di avvelenamento.
Nel Ritratto di Guidobaldo II della Rovere (7) di Bronzino, prototipo ritrattistico che farà da modello per la rappresentazione ufficiale degli uomini di stato, il Duca di Urbino ha una mano posata su un elmo che reca iscrizioni greche e l’altra su un cane dotato di un collare con chiusura d’oro «a conchiglia», e la cui espressione mostra una penetrazione psicologica al pari di quella del padrone. Sono i segni distintivi che ogni Cortegiano deve possedere, secondo le indicazioni di Baldassarre Castiglione, cerimoniere del bon-ton cinquecentesco: insieme alla cultura classica, alla caccia e alle «buone maniere», il buon cortigiano deve essere capace di accarezzare distrattamente un cane, sapendo quali punti toccare per fargli più piacere. Qualche decennio dopo, Cosimo I versò dieci scudi d’oro a Benvenuto Cellini per «fattura e bronzo di un cane in basso rilievo», oggi al Bargello (8), che l’artista eseguì come opera di prova per la fusione del Perseo; mentre nel 1560 Pio IV donò allo stesso Duca due splendidi molossi in marmo pentelico (9), copie romane di originali ellenistici, che si dice provenissero dagli Horti Liciniani sull’Esquilino.
Vasari racconta che Cosimo li avesse inizialmente destinati alla decorazione di un salone del primo piano di Palazzo Pitti, mentre oggi li ritroviamo a guardia del secondo vestibolo d’entrata degli Uffizi. Persino nella Tribuna, cuore delle collezioni medicee, c’erano sui palchetti due piccoli cani in marmo tra cui «una canina, pelosa barbetta, con uno canino che poppa», come si legge nel primo inventario del 1589. Nei secoli successivi, i cani — questa volta in carne ed ossa — dei principi e delle principesse potevano sfoggiare collari con preziose borchie, pietre incastonate e stemmi di famiglia, ma anche gioielli forgiati dalle più abili maestranze orafe. Nell’inventario redatto alla morte del Gran Principe Ferdinando si trova descritto «un collare da cani in piastra d’argento (...) dorata rapportata sopra altra piastra di rame con arme e corona reale, borchia per la campanella e parole d’argento di getto». Da qui al collare di Cartier il passo non è poi così lungo.