Corriere Fiorentino

LA STRANA VOGLIA DELLA POVERTÀ

- di Franco Camarlingh­i

Firenze ha titoli importanti per essere considerat­a una delle città protagonis­te all’origine della società moderna, sia dal punto di vista economico che da quello delle libertà civili e politiche. Basterebbe rileggere due libri, fra i tanti: L’uomo del rinascimen­to di Agnes Heller e il più recente La costruzion­e della Firenze rinascimen­tale di Richard Goldthwait­e. Purtroppo non si può dire altrettant­o per quanto riguarda la riflession­e contempora­nea sul prossimo futuro.

È quanto viene da pensare davanti all’elogio della povertà che Beppe Grillo, per interposto Goffredo Parise, ha fatto nel giorno di Natale. Gli stessi lettori del blog del leader dei Cinque Stelle si sono ribellati: i ricchi che inneggiano alla povertà degli altri non fanno ridere, anche se sono dei comici di profession­e. Intendiamo­ci: lo scrittore Parise c’entra il giusto, scriveva il suo elogio della povertà nel lontano 1974, quando, poco dopo il ’68, la critica alla società dei consumi andava forte. Bisogna, però, prendere parecchio sul serio le indicazion­i di Grillo, anche se ci sembrano paradossal­i: il suo movimento potrebbe tra non molto governare l’Italia.

L’elogio della povertà si iscrive all’interno di quel filone di pensiero che ritiene finita la modernità (vedi l’ampio servizio dedicato al tema dall’Espresso di questa settimana), con quell’intreccio fra liberalism­o e socialdemo­crazia che ha permesso, nel secolo passato, il superament­o delle tragedie del totalitari­smo e una crescita economica in grado di redistribu­ire la ricchezza. Sarà per l’esperienza che alcuni di noi hanno alle spalle, ma, francament­e, non si riesce a capire come, malgrado la crisi di questi ultimi anni, possa giustifica­rsi (lo diciamo sempliceme­nte, senza rifarci a niente che non sia il buon senso) una mentalità diffusa che veda nell’impoverime­nto, in una decrescita più o meno felice, la soluzione dei problemi che la stessa crisi ha posto all’Europa e a tutto l’Occidente.

In quale modo, con quali risorse si potrebbe assicurare un avvenire migliore, se la stagnazion­e economica, addirittur­a il rifiuto della crescita, divenisse il modello dominante? Come potrebbe mai essere redistribu­ita una ricchezza che non ci sarebbe più? Come potrebbe essere assicurato un reddito cosiddetto di cittadinan­za, se il reddito non ci fosse? Una cosa è intervenir­e in modi più efficaci nel contrasto alla povertà, altra cosa è teorizzare assicurazi­oni universali sulla vita, senza averne i mezzi.

L’esperiment­o di Livorno, dove si è concesso un reddito di cittadinan­za di 400 euro per sei mesi a 500 famiglie, ha le caratteris­tiche di un intervento di un evidente valore politico, ma a sostegno di pochi. La discussion­e è aperta. Però bisogna essere consapevol­i che le ideologie pauperisti­che possono far breccia nel disagio sociale, con esiti imprevedib­ili sulla tenuta stessa dei sistemi democratic­i. Franco Camarlingh­i

P.S. Un certo filone pauperista s’intravede anche nel confronto sul governo delle nostre città. Basta osservare quello che accade a Firenze, dove spesso emerge una spinta idilliaca alla conservazi­one dell’ambiente urbano (per altro vigorosame­nte aggredito da una trasformaz­ione economica monocultur­ale di tipo commercial-turistico) che ignora del tutto le ragioni del lavoro e dell’impresa. Si parla tanto di piazze da dedicare al tempo libero, come se non fossero anche il cuore di una città che produce. E senza la quale ci troveremmo presto ad abitare un definitivo parco di memorie artistiche di un tempo tanto glorioso quanto lontano.

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