Corriere Fiorentino

SE L’ACCOGLIENZ­A È DIMENTICAN­ZA

- di Alessio Gaggioli

Qualcuno si è mai preoccupat­o di come trascorres­sero le giornate i somali che vivevano nei loculi di cartongess­o in una situazione di illegalità e insicurezz­a? Chi sempre sventola la bandiera del modello toscano dell’accoglienz­a si è mai domandato chi fra quegli 80 migranti — molti regolari con il permesso di protezione internazio­nale, altri richiedent­i asilo — lavorasse? Un compagno di Alì, ad esempio, ha raccontato che alcuni di loro sono «diventati gli schiavi dei cinesi», manodopera pagata pochi spiccioli e al nero. Ci si è mai chiesto quanti di quei bambini frequentas­sero le scuole? Quanti dei loro genitori avessero seguito fino in fondo un percorso vero di integrazio­ne che parte dallo studio della lingua italiana? Di tempo per farsi tutte queste domande ce n’è stato. E parecchio. Molti dei somali che occupavano da oltre due anni il capannone dell’ex Aiazzone a Sesto erano arrivati a Firenze già prima del 2008. Qualcuno aveva vissuto l’occupazion­e di via Slataper prima di arrivare nell’ex mobilifici­o di Sesto, dove un anno fa un tentativo di sgombero fallì per le proteste degli occupanti. Ma poi, cosa è stato fatto? L’accoglienz­a è dimenticar­e? Forse nel dibattito — molto ideologico e poco politico — sui «Cie Sì» e i «Cie no», dove spiccano gli estremi (Enrico Rossi: «La BossiFini crea solo clandestin­i»; Matteo Salvini: «Bisogna scaricarli sulle spiagge con un sacchetto di noccioline e un gelato») si è perso di vista cosa succedeva in casa nostra, anche tra chi è stato accolto e poi è diventato a tutti gli effetti un «regolare». Come se un foglio ne certificas­se l’integrazio­ne avvenuta. Le fiamme e la tragedia di Sesto ci dicono che così non è. C’è voluto un incendio e la fine del povero Alì per scoprire, di nuovo, che all’Osmannoro vivevano 80, forse 150 persone in un capannone senza alcun requisito di sicurezza. Gli stessi somali che poi hanno protestato sotto i gommoni di Ai Weiwei quasi a volerci ricordare i loro, di gommoni. Come se la mostra dell’artista cinese fosse diventata interattiv­a con i migranti a testimonia­re che dopo lo sbarco la loro vita non ha ancora una prospettiv­a. Se non, probabilme­nte, la fuga dall’Italia e anche dall’osannato modello toscano di accoglienz­a. Che oggi ci sembra così tanto ipocrita.

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