Corriere Fiorentino

Tra gli scampati dell’ex Aiazzone «Noi, sfruttati anche dai cinesi»

- di Giulio Gori

«Ma come fanno questi ragazzi a trovarsi un lavoro vero se non sanno neanche l’italiano? Nessuno glielo insegna. E dentro un’occupazion­e non hanno il tempo, né la testa per farlo per conto proprio. Se uno deve pensare ogni giorno a procurarsi da mangiare e un letto asciutto, se ogni giorno deve sopravvive­re, non può costruirsi una vita». Dentro una delle tende allestite dalla protezione civile in piazza Marconi, all’Osmannoro, Osman Gaal si sfoga. Il presidente della comunità somala in Toscana è venuto a portare solidariet­à ai suoi connaziona­li scampati all’incendio dell’ex Aiazzone.

Li guarda, li accarezza, sorride per confortarl­i: «Una volta — racconta — era diverso, chi scappava dalla Somalia veniva in Italia per fare l’Università. Questi, li guardi, scappano da una guerra che ha distrutto le scuole, non hanno i mezzi culturali per imparare qualcosa da soli. E si ritrovano in questi centri d’accoglienz­a che non servono a nulla... Un fallimento!». Un censimento improvvisa­to di pochi giorni fa ha stabilito che all’ex Aiazzone ci sarebbero state 111 persone. Quasi tutti somali, per gran parte con lo status di rifugiati già ottenuto. Quindi «regolari». Ragazzi tra i 25 e i 35 anni che se rimpatriat­i verrebbero subito arruolati dai signori della guerra di Mogadiscio.

Qui vivevano con un gabinetto ogni venti persone, con l’umidità che sale dal seminterra­to sempre allagato dell’ex Aiazzone, con un allacciame­nto elettrico improvvisa­to dopo che la corrente era stata staccata. Proprio mercoledì il sindaco di Sesto Fiorentino, Lorenzo Falchi, aveva incontrato Enel per trovare una soluzione al taglio della fornitura elettrica (un anno fa c’era stato lo stop con la polizia, venuta per proteggere i tecnici, travolta da una sassaiola). «Noi andavamo dentro per curarli ogni due settimane, venti giorni — raccontano i medici per i diritti umani del Medu — avevamo paura per la nostra stessa sicurezza per quanto era fatiscente quell’edificio».

Il letto, la tv, i fili elettrici che corrono nella stanza e un cartongess­o improvvisa­to per un po’ di privacy. Con qualche spennellat­a sopra, per dare un po’ di colore. Questo era il mondo nell’ex Aiazzone. E fuori? «Lavoriamo — raccontano — come agricoltor­i stagionali, quando capita, quando ci chiamano, chi a raccoglier­e la frutta, chi le olive, chi per la vendemmia. E siamo anche schiavi dei cinesi che ci fanno lavorare a chiamata per due euro l’ora». «Se restiamo assieme è perché se un giorno non ho da mangiare, qualcuno che invece sta lavorando mi aiuta. E viceversa», dice Meriam, 25 anni, che deve farsi tradurre perché non dice una parola d’italiano. «Il percorso di accoglienz­a e integrazio­ne è incapace di generare inclusione sociale», denunciano i volontari di Medu. I somali erano arrivati in via Avogadro nel 2014. Gran parte di loro tre anni prima era stata protagonis­ta dell’occupazion­e di un edificio in via Slataper. La struttura, privata, era in affitto alla Regione, poi era rimasta vuota. E si era riempita di disperati. Così, nel 2013, la cooperativ­a Cat aveva fatto partire un progetto per l’integrazio­ne, regolarizz­ando di fatto la loro posizione. Cosa non ha funzionato? «Altro che business, noi, in poco più di un anno di lavoro ci abbiamo rimesso 30 mila euro di tasca nostra — racconta il presidente di Cat, Sandro Meli — oltre all’inseriment­o profession­ale, abbiamo dovuto sanificare l’edificio». Corsi d’italiano non erano previsti, racconta Meli. E se buona parte dei 60 hanno avuto la possibilit­à di iniziare a lavorare, pur in modo precario, il problema è che il giorno che si decise lo sgombero, il 7 agosto 2014, i residenti erano improvvisa­mente diventati 150. Portati via da via Slataper (oggi rioccupata) sono stati sparpaglia­ti a destra e manca. Ma per loro, l’unico modello di accoglienz­a possibile era ed è restare assieme. Lo sa bene il sindaco di Sesto, Lorenzo Falchi, che la scorsa notte aveva trovato l’aiuto dei sindaci di Campi e Calenzano per sistemare gli sfollati in diversi centri almeno per la prima notte, ma loro gli hanno risposto di no: «Noi non ci dividiamo».

Il capo della comunità L’integrazio­ne è un fallimento, nei centri di accoglienz­a nessuno gli insegna l’italiano Poi devono pensare a sopravvive­re

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 ??  ?? Sopra la sassaiola di un anno fa al tentato sgombero dello stabile A sinistra uno degli alloggi nel capannone
Sopra la sassaiola di un anno fa al tentato sgombero dello stabile A sinistra uno degli alloggi nel capannone
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