La notte dei sopravvissuti «Siamo tornati numeri»
SESTO FIORENTINO Sulle brandine o sui gradoni del Palazzetto di Sesto. La prima doccia calda e un pasto offerto dai volontari. Eccola la prima notte passata dai somali sopravvissuti al rogo dell’ex mobilificio all’Osmannoro.
SESTO FIORENTINO «Siamo da dieci anni a Firenze e occupazione dopo occupazione ora siamo diventati dei senza tetto». La prima notte al Palasport di Sesto sembra essere il momento della presa di coscienza del loro stato. Una soluzione provvisoria, più sicura dell’ex mobilificio andato a fuoco dove è morto Alì, ma un altro colpo al senso di precarietà, all’incertezza di una prospettiva di vita dignitosa.
Fuori dal palazzetto, sono circa le 23 di giovedì sera, un gruppetto di somali racconta meglio di chiunque altro il paradosso dell’accoglienza che poi dimentica. «Ma come fate ad accoglierci tutti se poi non sapete dove metterci? Molti di noi sono regolari ma non sanno nemmeno l’italiano e ora siamo finiti qui a dormire sui gradoni». I cento profughi di via Avogadro arrivano in bus a Sesto dopo aver occupato per alcune ore Palazzo Strozzi, sotto i gommoni di Ai Weiwei, fasciati fino alla testa con coperte di fortuna. Si portano dietro un valigione pieno di indumenti e documenti che li accompagna da quando hanno messo piede in Italia. Ma nel rogo dell’Osmannoro c’è anche chi ha perso tutto: «Mi è rimasto solo quello che ho addosso — dice Farah — le fiamme mi hanno portato via ogni cosa». E mentre all’esterno del Palasport si discute e si ripercorrono gli istanti precedenti e successivi al rogo, all’interno i volontari della Racchetta, della Croce Viola, dell’associazione nazionale carabinieri e della Misericordia si danno da fare per organizzare la nottata: come fossero parte di una catena di montaggio si caricano sulle spalle le brandine e le dispongono in cerchio. Nel frattempo tra i somali c’è chi si addormenta sulle gradinate, in attesa che tutto sia pronto, e chi occupa i bagni per darsi una ripulita: «Finalmente una bella sorpresa, un po’ di acqua calda — esclama con stupore Mohammed — erano mesi che non ne avevamo a disposizione».
Gran parte dei somali è tornata ad essere un numero. Con i documenti andati in fumo era impossibile fare diversamente. I numeri servono per controllare chi entra e chi esce dal palazzetto dello sport e a usufruire della colazione, del pranzo e della cena: è la polizia municipale a controllare che non ci siano «infiltrati». Tutto procede senza intoppi. Cala il silenzio, anzi riecheggiano i guaiti di un cane. Qualcuno fuma l’ultima sigaretta con un volontario a cui racconta le sue peripezie: prima il viaggio a piedi, dalla Somalia alla Libia, durato un paio di mesi e poi, una volta arrivato a Firenze la nuova transumanza da un’occupazione all’altra. Viale Guidoni, via Slataper, le Cascine, i capannoni abbandonati della Leopolda fino a Sesto.
«Quando un somalo arriva a Firenze — racconta Keiran — già sa che se vuole trovare un posto per dormire e un lavoro non deve rivolgersi alle associazioni o al Comune ma deve andare in via Palazzuolo, nei negozi e nei bar dei somali. È lì che ti dicono dove puoi essere ospitato e dove guadagnare qualche euro». Keiran ha 26 anni, è arrivato in Italia nel 2007 a bordo di un gommone: parla bene la nostra lingua e ha anche lavorato in una fabbrica grazie alla Borsa lavoro, «ma poi sono stato abbandonato». Era un bambino soldato e porta con se le cicatrici che gli ha lasciato un gruppo di guerriglieri di Al Shabaab: «Vorrei tornare in Somalia, dai miei genitori, ma se ci rimetto piede mi tagliano la gola». Lui è uno dei pochi somali di via Avogadro ad aver frequentato un corso di lingua: «Siamo appena una quindicina su cento. Ci danno lo status di rifugiati e poi ci abbandonano a noi stessi. Ho provato a spostarmi in Germania o in Scandinavia... mi hanno rimandato indietro».
Molti rifugiati di Sesto vivono di espedienti, di elemosine, («lavoriamo per i cinesi a 50 euro al mese o nei campi»), e mangiano nelle mense della Caritas: sono fantasmi, ma regolari. Come Alì che è morto per recuperare i documenti necessari al ricongiungimento familiare con le figlie e la moglie in Kenya. Alì, a cui, prima dello spegnimento della luce della grande camerata (al centro del palazzetto, dove di solito si gioca a basket o pallavolo) è stata dedicata una sura del Corano e una supplica: «Proteggici e, insieme al Profeta, dacci la forza per continuare a vivere...».
Accolti e poi abbandonati. Il lavoro e una casa? Gli unici a cui rivolgersi sono i bar o i negozi dei somali di via Palazzuolo