In via Luca Giordano 50 somali residenti, con la carta d’identità
Said tossisce, tossisce forte. «Sto male, e non mi lavo da cinque giorni». È malato e qui dentro è freddissimo. L’umidità penetra nelle ossa. Niente riscaldamento, niente acqua calda. I bagni sono putridi. «Per lavarmi e mangiare devo andare alla Caritas». Ora però Said ha l’influenza e preferisce restare a casa. Questa, però, non è una casa. È l’ex magazzino dell’ospedale Meyer, in via Luca Giordano a Firenze. Quasi un inferno. Dentro ci sono cinque gradi. Muffa, tanfo, freddo. In questi fatiscenti corridoi, vivono abusivamente una cinquantina di rifugiati somali. Sono tutti regolari: protezione sussidiaria, asilo politico, protezione umanitaria. Sulle loro carte d’identità, la residenza è segnata in via Luca Giordano. Eppure, senza un lavoro, sono come fantasmi. «Facciamo domanda nei bar, nei ristoranti, nei centri per l’impiego, così potremmo essere autonomi e trovare una casa in affitto. Ma nessuno ci prende». Qualcuno è passato dai centri d’accoglienza, ma l’ospitalità è stata temporanea. E quindi sono ritornati qui.
È una delle occupazioni storiche del Movimento di lotta per la casa. I somali arrivarono in via Luca Giordano nel 2008, dopo l’incendio all’ex scuola Caterina dei Medici di viale Guidoni. Nessuno di loro, dopo la fuga dalla Somalia in guerra, avrebbe mai pensato di ritrovarsi in queste condizioni. «Viviamo come topi». Sopra le loro teste, rimbombano giorno e notte i treni che attraversano Le Cure. Dormono ammassati in piccole stanze con 15 brandine ciascuna, sotto le quali ci sono zaini e valigie. Qualcuno dorme per terra col sacco a pelo. «La notte si gela» ripete Said, portandosi le mani alla bocca. «Dormiamo coi vestiti addosso, con il giubbotto e tre coperte ciascuno, spesso però non basta». C’è troppa umidità. E molti si ammalano. «Abbiamo bisogno di medicine, prima o poi qualcuno ci rimette la pelle».
In loro soccorso ci sono i volontari di Medu, l’associazione dei Medici per i diritti umani. Ma qui ci sono tre bagni fatiscenti per cinquanta persone, e un solo lavandino aggredito dalla ruggine. Un secchio per sciacquarsi, lo stesso che viene usato per lavare i vestiti, poi appesi ad asciugare dentro le stanze. La luce arriva da un rudimentale impianto improvvisato, non c’è sicurezza. «Speriamo di non fare la stessa fine di Alì».
Tutti gli occupanti hanno saputo dei tragici fatti all’ex Aiazzone. «Ma qui stiamo meglio, abbiamo i turni per la pulizia del bagno e delle stanze» raccontano. Uno di questi corridoi è stato adibito a sala di preghiera. Sopra i tappeti, i fedeli somali si inginocchiano cinque volte al giorno in direzione della Mecca. C’è anche un televisore sgangherato. Uno dei somali sussurra: «Il mio sogno è tornare in Somalia, ma non ho i soldi per comprarmi il biglietto dell’aereo». Quasi tutti hanno lasciato in patria moglie e figli, che sentono telefonicamente un paio di volte alla settimana. Alcuni somali mangiano soltanto a pranzo, quando le mense Caritas sono aperte. «Spesso saltiamo la cena, molti di noi sono dimagriti quasi dieci chili». Eppure, nessuno di loro vuole rassegnarsi a chiedere l’elemosina per strada: «Noi somali abbiamo una dignità — dice Abdi, uno degli occupanti più anziani — meglio morire piuttosto che mendicare sui marciapiedi».