Corriere Fiorentino

«Io fuggito da Mogadiscio, qui ho perso la mia dignità»

IL RACCONTO DALLA SOMALIA AI CAPANNONI

- Jacopo Storni

Mohamed viaggia con il curriculum nella tasca del piumino. Per lui, ogni occasione è buona per trovare lavoro. «Voglio lavorare» ripete come un mantra. «Senza, non posso avere una casa. E senza casa, sono costretto a vivere in occupazion­e». Sopravvive con lavori a chiamata nelle fabbriche cinesi. «In Somalia, dopo le scuole medie, ho fatto il pellettier­e e sono bravo in questo lavoro». Gli imprendito­ri cinesi se ne sono accorti e lo chiamano nel momento del bisogno: «Tutti lavori al nero — dice lui — Dieci ore consecutiv­e per 30 euro. Dodici ore per 35 euro». Conta con le dita della mano, per riportare alla memoria quelle misere paghe. «É umiliante e massacrant­e. Sono come uno schiavo». Ha lavorato nei capannoni di Signa e Sesto. «I cinesi hanno il mio numero, quando c’è bisogno mi telefonano».

Non succede soltanto a lui. Altri profughi sbarcano il lunario tra borse e filati orientali. Sono manodopera preziosa, costano meno di tutti. Mohamed, la sciarpa fino al naso, il cappuccio in testa, trema di freddo ma continua a manifestar­e: «Datemi un tetto dignitoso». Ha visto la guerra in faccia, il freddo non lo intimorisc­e. È scappato quando aveva 18 anni. «In Somalia puoi morire di notte all’improvviso, ti cade sul tetto un mortaio e sei finito. Tanti sono morti così. Mio padre mi ha pregato di emigrare per avere una vita migliore».Ha nostalgia di casa, nonostante la guerriglia che imperversa nel Paese dal 1991, quando cominciò la resistenza nei confronti del regime di Siad Barre. «Mi manca Mogadiscio, mi manca la mia patria, ma non posso tornare, è troppo pericoloso». Rischiereb­be di morire sotto le bombe, oppure di essere forzatamen­te reclutato dalle milizie terroristi­che Al Shaabab, gruppo affiliato ad Al Qaeda che assolda nuovi adepti, soprattutt­o tra i giovanissi­mi, e semina violenze nelle città e nei villaggi.

«Ma qualcuno di voi conosce tutto questo?». È arrabbiato Mohamed. Con tutto e con tutti. E non si fida più di nessuno. Sperava di trovare una vita migliore. Invece non ci crede più. Per lui, aldilà dell’accoglienz­a subito dopo lo sbarco, questo Paese non gli ha più offerto niente. «Sono stato per un anno al centro d’accoglienz­a Paci, poi è scaduto il tempo e sono rimasto per strada». Un anno è lungo, ma non è bastato a Mohamed per trovare la sua autonomia: «C’erano lezioni di italiano soltanto un paio di volte alla settimana, l’accompagna­mento al lavoro non ha prodotto alcun risultato». È stato soltanto assistenzi­alismo, secondo Mohamed. «L’italiano l’ho imparato nei miei libri di testo e guardando la television­e, non certo grazie agli operatori del centro d’accoglienz­a». Non crede di mancare di riconoscen­za, «è un sistema sbagliato che arricchisc­e soltanto le cooperativ­e e lascia noi rifugiati senza lavoro e senza casa».

Scaduto il termine dell’ospitalità, si è ritrovato per strada. Così è finito nell’occupazion­e di via Slataper. Poi, dopo un anno, lo sgombero e il trasferime­nto nell’inferno dell’ex Aiazzone. Ha tentato di emigrare prima in Svezia, poi in Germania, in Francia e in Svizzera. «Ogni volta, la polizia mi ha rimandato indietro». Colpa della Convenzion­e europea di Dublino, che di fatto obbliga i profughi a vivere nel Paese in cui hanno richiesto l’asilo politico, in questo caso l’Italia. «Non sono scappato dalla Somalia per divertimen­to, la guerra mi ha portato fino a qui». E ancora, la sua, non è finita.

 Sono diventato schiavo dei cinesi Gli unici che mi fanno lavorare E sempre al nero

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Il capannone dell’ex Aiazzone che ha preso fuoco giovedì notte Nel rogo ha perso la vita Ali Muse
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