LA LICENZA DI FARE CASSA
La decisione del Comune di Firenze di concedere 70 nuove licenze di taxi a giovani in cerca di prima occupazione è senz’altro apprezzabile. Cercare di risolvere il problema della disoccupazione in modo diverso dal tradizionale ricorso all’ingrossamento del pubblico impiego è una scelta condivisibile. E di tassisti a Firenze c’è bisogno. Al di là degli aspetti giuridico-formali, che hanno indotto la burocrazia comunale a richiedere ulteriori garanzie sulle fidejussioni ai vincitori del bando, è tuttavia lecito chiedersi se la scelta di mettere in vendita le licenze sia stata l’opzione più felice.
È vero che il Comune ha bisogno di soldi; ma la richiesta di 175 mila euro per intraprendere una nuova attività è tutt’altro che irrisoria, per chi ha veramente bisogno. C’è tuttavia un altro motivo che urta nella scelta del Comune di alienare le licenze. Rinunciare alla loro vendita avrebbe significato mettere la parola fine alla patrimonializzazione di un bene che non esiste. I requisiti necessari per divenire tassisti sono infatti solo il possesso di un’automobile adeguata, di una fedina penale immacolata, di una patente: la licenza non è un bene materiale, che si compravende, come una casa. Invece di chiedere soldi, il Comune avrebbe potuto cogliere l’occasione per imporre ai vincitori del bando nuove regole: l’accettazione dell’installazione di un rilevatore satellitare degli itinerari, per prevenire «giri pesca» strumentali ma per la sicurezza degli stessi tassisti, l’obbligo di esibire un tesserino di riconoscimento con tanto di fotografia, per sanare la piaga del subaffitto di licenze, il rilascio di scontrini fiscali (ormai li emettono anche gli ambulanti) e la disponibilità del Pos, per favorire la trasparenza e anche per evitare spiacevoli discussioni sulla carenza di spiccioli, prezzi di favore per anziani, donne incinte, invalidi, per cui una città pedonalizzata come Firenze sta divenendo inaccessibile, la rinuncia a balzelli arcaici, come il supplemento notturno, che in certi casi supera il costo della corsa.
Concedere le nuove licenze sostituendo l’esborso di un patrimonio con un piccolo canone annuale e con l’introduzione di regole chiare e tassative avrebbe consentito di uscire dalla logica perversa per cui chi possiede una licenza di tassì non si considera l’esercente di un servizio pubblico, ma il titolare di una rendita trasmissibile a figli e nipoti. A vendere le cariche per tappare i buchi di bilancio, nell’Europa del Seicento, era la monarchia francese. Lì per lì, risolse qualche problema; col tempo, però, fece una brutta fine.