SUPPLENZE E ASSENZE
Èdifficile capire l’entusiasmo di quei politici che ieri hanno salutato la sentenza della Consulta come una specie di toccasana. Forse avrebbero fatto meglio a riflettere sulle condizioni in cui versa la politica italiana, che da decenni ormai non riesce a sfornare una legge elettorale che superi l’esame di costituzionalità. Un trionfo. Ma è ancora più grave che tanti politici facciano finta di non accorgersi che in Italia ormai perfino la legge che fissa la regola base del gioco politico-istituzionale non viene decisa dal Parlamento, ma da un supplente. Del massimo rango, certo, ma che non rappresenta il potere legislativo. La Consulta, presieduta dal fiorentino Paolo Grossi, ha fatto il suo dovere sfrondando l’Italicum dalle parti giudicate incongrue rispetto ai principii della nostra Carta e salvando comunque quelle parti della legge che consentirebbero di andare alle urne anche domani, in teoria. Ma è pur vero che si tratta di un sistema di voto nuovo, che ha preso forma per mutilazione, così come era successo al sistema elettorale del Senato. Un successone. Tanto più che ora abbiamo una legge elettorale valida per Montecitorio e una per Palazzo Madama, e ci sarebbe la necessità di uniformarle prima di andare alle urne.
Stupisce ancor di più l’effervescenza del fronte renziano, che è sembrato tonificato dalla svolta. Sia perché in un mese sono stati azzerati tutti i pilastri della riforma istituzionale voluta dal precedente governo, sia perché l’auspicato (da loro e da altri) ritorno alle urne nel più breve tempo possibile non è affatto detto che premi il Pd.
Il premio di maggioranza è passato indenne al vaglio della Consulta, ma difficilmente scatterà visto che bisognerebbe ottenere il 40 per cento dei voti. I Cinque Stelle baldanzosamente dichiarano che per loro sarebbe una meta raggiungibile, ma è più probabile che ci si possa ritrovare una Camera divisa in tre grandi gruppi più altri minori, secondo uno schema proporzionale che richiama da vicino la Prima Repubblica. Quasi una garanzia di ingovernabilità. È un quadro nel quale il segretario del Pd dovrebbe allora rilanciare la sua iniziativa pensando più ai contenuti che alle scadenze. Servirebbe, prima di tutto, un’idea nuova e convincente dell’Italia. Presentando il suo blog, che ne segna il ritorno sulla scena dopo la batosta referendaria, Renzi invece ha indugiato sui suoi meriti da premier, come se non avesse ancora metabolizzato la sconfitta. Quanto alla sua prossima offensiva nel Paese, per quello che se ne sa, dovrebbe essere una specie di campagna d’ascolto in grado di riavvicinare il partito alle esigenze di quegli elettori che gli hanno voltato le spalle. Un ritorno alle assemblee dei fiorentini «Cento luoghi», insomma, però su scala nazionale. Il problema è che dopo due anni dal suo sbarco a Palazzo Chigi, da Renzi più che la capacità di ascoltare ci si aspettano soluzioni, progetti credibili, impegni coerenti.
Della necessità di privilegiare i contenuti parla invece il governatore Enrico Rossi. Il quale non vuole sentire parlare di nuovo Ulivo perché ormai superato dai tempi come variante del blairismo. Solo che poi propone una formula non proprio nuovissima, e cioè quel socialismo che sarebbe l’unica strada per superare la crisi del capitalismo. In versione aggiornata, però, perché il socialismo secondo il governatore sarebbe un possibile «riferimento» per esprimere in politica anche il coraggio e la nuova visione sociale e globale che Papa Francesco ha impresso alla Chiesa e al mondo cattolico. Come dire che se ci si sente giù e non si ha il ricostituente si usa quello altrui…