Il prete che salvò la mia famiglia
Adam Smulevich racconta l’eroismo di don Matti e dei suoi cari a Firenzuola «Grazie a loro il nonno e gli altri sfuggirono alla cattura dei nazisti. Meritano il titolo di Giusti»
Sono racconti ormai leggendari in famiglia, un patrimonio di memorie e aneddoti che viene spesso evocato quando ci ritroviamo tutti insieme per un’occasione conviviale. «Ti ricordi, Giulietta, quando negli Anni Sessanta don Renato Matti veniva da noi a cena in via Pascoli?», dice mio padre a sua sorella. «Certo, ricordo anche che ci guardavamo un po’ perplessi. Che ci faceva un prete in casa nostra, perché papà e il nonno lo abbracciavano così calorosamente?».
Quel prete un po’ guascone, che incuriosiva così tanto mio padre e mia zia, oltre ai cugini Ruben e Massimo, forse non aveva l’aspetto dell’eroe. Ma lo è stato senza ombra di dubbio. E con lui i fratelli, i genitori, alcuni amici stretti che frequentavano l’abitazione dei Matti a Firenzuola, nel cuore dell’Appennino, ultimo lembo di toscanità prima dell’Emilia Romagna. Tutti si diedero da fare, nei mesi della persecuzione antiebraica più feroce, quando già molti treni erano stati inviati nei campi di sterminio, per dare soccorso, assistenza e solidarietà.
In quelle settimane Firenzuola, a due passi dalla famigerata Linea Gotica, era forse il posto più pericoloso d’Italia. Un viavai continuo di soldati tedeschi, che oltre a presidiare i centri abitati pattugliavano costantemente i boschi, le valli, i torrenti. Erano ovunque, ad ogni angolo. Il pericolo di cattura o anche quello di delazione da parte di chi voleva arricchirsi ai danni del prossimo era quindi altissimo.
Eppure fu in quel contesto così rischioso che gli Smulevich — mio nonno Alessandro, sua sorella Ester, i genitori Sigismondo e Dora, il cugino Leo — trovarono l’agognata salvezza dai persecutori. Nascosti in casa, nelle grotte, trasportati sul sellino di una bicicletta sgangherata per cambiare nascondiglio e sfuggire alla cattura. Fu Renato Matti, futuro parroco, a gestire l’operatività dell’azione di soccorso insieme ai genitori Armando e Clementina. Allora poco più che ventenne, educato sin da ragazzo a una fervente militanza antifascista, Renato tenne i rapporti con chi, da Prato, aveva mandato gli Smulevich a Firenzuola (dove il loro cognome diventò Sigismondi). L’ultimo rifugio a Le Cà di sotto, una suggestiva frazione con poche case in pietra dove i tedeschi non mancarono comunque di far sentire la loro presenza.
Fu là che avvenne l’emozionante incontro tra quel piccolo gruppo di persone braccate e alcuni soldati inglesi che con gli americani avevano da poco sfondato la Linea al Passo del Giogo e che iniziavano in quei minuti a prendere possesso del territorio adiacente. Mio bisnonno Sigismondo, sentendo arrivare dei soldati a passo svelto, aveva temuto che fosse arrivata la fine. «Ecco, sono tedeschi. Non c’è più speranza» il pensiero che gli era subito passato per la testa. E così aveva radunato tutti in una stanza per dare ai suoi cari l’ultima benedizione. Ma fu un errore di valutazione, per sua e loro fortuna.
Parlavano una lingua amica i soldati accorsi in fretta e furia dal vicino sentiero. E invece di uno sguardo gelido e feroce, lo sguardo della morte, avevano il volto disteso e sorridente. «Siete ebrei? Buone notizie per voi, allora. Da questo momento siete uomini liberi». La preghiera si trasformò così in un pianto commosso. Era la fine dell’incubo, dopo mesi di angoscia e clandestinità. E l’emozione raggiunse livelli inverosimili quando, il giorno successivo, distesi nei pressi di un’ambulanza, i miei scoprirono che dallo stesso sporgevano soldati con la Stella di Davide al braccio.
Erano i volontari della Brigata ebraica, accorsi dall’allora Palestina mandataria (il futuro Stato d’Israele) per dare un contributo nella liberazione del paese.
Con la scomparsa della prozia Ester, lo scorso giugno, è venuta a mancare l’ultima diretta testimone di quei fatti. Sia dalla parte dei salvati, che dei salvatori. E così forse mai come prima ci siamo resi conto di una lacuna che non è più tollerabile: l’assenza di un riconoscimento ufficiale per quelle azioni di coraggio compiute a rischio della propria sicurezza ed esistenza.
Non c’è più nessuno in vita, ed è quindi un compito che spetta alle generazioni che sono seguite. A quelle non direttamente coinvolte in queste vicende, ma che dai testimoni hanno ricevuto in dono parole e pensieri di profonda gratitudine.
Ci vorrà del tempo, perché le verifiche dello Yad Vashem richiedono sempre un po’ di pazienza. Ma una pratica sarà presto aperta in Israele, presso il Memoriale che ricorda i crimini compiuti durante la Shoah ma a cui compete anche il conferimento del titolo di Giusto tra le Nazioni per coloro che seppero rifiutare l’indifferenza.
Firenzuola vanta già un Giusto, don Leto Casini, uno dei principali artefici della rete di assistenza che operò in quei mesi nel Centro Italia. È tempo di aggiornare l’elenco.
Era un po’ guascone forse non aveva l’aspetto dell’eroe ma fu lui a gestire l’azione di soccorso