La Storia? È (anche) donna
Studiose e studiosi da tutto il mondo a Pisa per un confronto sulla «ricerca di genere» «Con lo sguardo femminile gli eventi del passato si arricchiscono di particolari, senza stereotipi»
«Gli uomini vengono da Marte, le donne da Venere», scriveva John Gray dieci anni fa in un libro diventato best seller nel giro di un amen. Due pianeti diversi, che si incontrano e si scontrano nella continua ricerca di un canale (mai scontato) di comunicazione. Eppure il rapporto uomo-donna è oramai riconosciuto da più parti come il motore della Storia, quella con la esse maiuscola. «Nello studio degli eventi del passato — spiega Daniela Lombardi, docente di Storia moderna al Dipartimento di civiltà e forme del sapere dell’Università di Pisa — non è possibile separare i comportamenti maschili da quelli femminili, bisogna analizzare piuttosto come interagiscono: nella società, nella politica, nel mondo del lavoro, nella sessualità».
La storiografia ufficiale invece ha quasi sempre privilegiato lo sguardo dell’uomo, tenendo in scarsa considerazione le influenze dell’altro «universo». Per questo nel 1989 è nata la Società italiana delle storiche (Sis), che ha tra gli obiettivi proprio la promozione della «storia di genere». Sia chiaro, nonostante l’assonanza, le teorie gender non c’entrano. Qui si parla di un metodo di ricerca che parte dal punto di vista femminile per arricchire di percorsi ancora poco battuti i manuali di Storia. «Tanto per fare un esempio — sottolinea Daniela Lombardi — la convinzione generale è che le donne abbiano iniziato a lavorare con la rivoluzione industriale, con le fabbriche. Invece non è così: perché, se si esclude chi apparteneva ai ceti nobiliari e aristocratici, tracce di una partecipazione al mondo produttivo si trovano già a partire dal medioevo». Stereotipi, dunque, che saranno al centro del settimo congresso della Sis in programma da domani a sabato nelle aule dell’Ateneo pisano, organizzatore dell’evento in collaborazione con la Scuola superiore Sant’Anna e con la Normale.
Un appuntamento internazionale (sono duecento le studiose e gli studiosi attesi) durante il quale saranno discussi vari temi: dalla capacità delle donne di cambiare gli statuti interni di alcune professioni, al loro ingresso nei movimenti politici o nelle istituzioni; da come vengono scritti i libri per la scuola e quelli per l’infanzia alla comparsa di una prima sessualità femminile lecita nella piccola posta delle riviste degli anni Sessanta-Settanta; dalla prostituzione alla funzione dei monasteri e delle religiose.
Per capire la violenza sulle donne non si può non tener conto di quanto abbia pesato il diritto romano e il pater familias
Un ampio spazio sarà poi dedicato alla violenza sulle donne, sia in Occidente che nel mondo arabo. «Per capire certe dinamiche — continua la docente dell’Università di Pisa, che è anche coordinatrice del congresso — può essere utile andare a rivedere il peso, non solo giuridico, che ha avuto il diritto romano nell’attribuire al pater familias l’obbligo di correggere, pure con la violenza, moglie e figli. All’uomo veniva attribuito un carico di responsabilità enorme, sicuramente eccessivo, che toccava perfino il comportamento sessuale della parte femminile della sua famiglia. Se si pensa che in Italia abbiamo avuto una riforma in senso paritario del diritto familiare solo nel 1975...». Le gerarchie, insomma, erano chiare e rigide. «Ma in pochi sanno che tra il XII e il XVIII secolo c’era la possibilità per le mogli di separarsi, appellandosi appunto alle violenze subite. A decidere erano i tribunali ecclesiastici, non si trattava però di una separazione definitiva: poteva durare mesi o anni e aveva come scopo quello di far redimere il marito, di farlo tornare sulla retta via».
Siamo lontanissimi dagli ordinamenti giuridici dei nostri giorni, anche perché non era sancita alcuna forma di parità: la donna veniva in qualche modo tutelata perché «soggetto debole alla stregua dei bambini». È facile intuire allora da dove arrivino quei pregiudizi culturali alla base delle tragedie che nascono in famiglia o in rapporti pseudo-affettivi: «Certe reazioni — chiosa la studiosa dell’Università di Pisa — sono indubbiamente frutto della crisi del ruolo maschile nella società e di un netto mutamento di quello femminile. Ci sono state trasformazioni profonde, tuttora in corso, che l’uomo spesso fa fatica ad accettare perché le vive come una sconfitta».
Per comprendere l’evoluzione del rapporto uomo-donna le ricercatrici della Sis si basano soprattutto sullo studio di fonti giudiziarie: «Sono molto utili a capire come è cambiata la percezione della differenza di genere nelle varie epoche, perché ci mostrano quali sono stati i valori dominanti, quello cioè che le donne o gli uomini dovevano dire per vincere un processo, per convincere un giudice». Altro interessante elemento di ricerca sono le rubriche della posta nelle riviste femminili dagli anni Sessanta in poi, Cosmopolitan in primis: «C’è — conclude Daniela Lombardi — lo sdoganamento di una serie di temi, a cominciare dalla sessualità, che ci dà la misura del percorso di emancipazione. Penso che sia stata decisiva, a partire dagli anni Cinquanta, la diffusione dei metodi contraccettivi. Hanno completamente capovolto i ruoli sociali e i rapporti tra uomo e donna, cambiando il modo di percepire la sessualità, che da pratica finalizzata alla procreazione è diventata anche ricerca di un piacere intimo, profondo. Certo, oggi siamo all’eccesso opposto: con i nuovi media tutto diventa pubblico, a partire dall’immagine dei nostri corpi». Ma questa è un’altra storia, che non merita (almeno per ora) la esse maiuscola.