SEPARATI IN CASA, ANZI IN REGIONE
Mentre è scattato il conto alla rovescia per la scesa in campo di Enrico Rossi a candidato dalla guida del Pd, che avverrà a Roma il 18 febbraio, i renziani a Palazzo Panciatichi, sede del parlamentino toscano, dichiarano guerra al governatore proponendo un reddito di povertà di 400 euro al mese per chi è sotto i tremila euro l’anno. Non ci sono i soldi? «Rossi li trovi, magari tagliando i soldi destinati dal governatore alla comunicazione», rispondono i renziani.
L’ordine di attaccare Rossi sembra che sia venuto dai vertici del Pd, irritati per i recenti attacchi di Rossi a Renzi: «Con me segretario, lui non sarà più presidente del Consiglio», ha tuonato il governatore. E così in Regione siamo alla «guerriglia» tra renziani e rossiani. Il clima è da separati in casa. Rossi e Renzi non si sono mai granché amati. Troppo diversi politicamente. Il primo viene dalla tradizione del Pci pisano, il suo riferimento ideologico e politico è Enrico Berlinguer, morto nel 1984 quando Renzi aveva solo nove anni. Ai tempi del Matteo rottamatore Rossi lo prendeva di mira un giorno sì e uno no: «Se a Renzi il Pd suscita tanta avversione perché non cambia partito?», polemizzò, il 12 ottobre del 2012, il governatore. Poi è andata come è andata e Renzi non solo non ha lasciato il Pd ma lo ha conquistato e si è insediato a Palazzo Chigi e Rossi realisticamente ne ha preso atto. E quando ha deciso di candidarsi alla segreteria del Pd ha stipulato un gentlemen’s agreement con i renziani per tenere la Toscana al riparo dalle controversie politiche nazionali. Ma la sconfitta di Renzi al referendum ha indotto il governatore ad uscire dalla sua posizione di terzietà — né renziano né antirenziano — per essere solo e fortemente contro l’ex premier.
Fin qui son problemi del Pd. La «balcanizzazione» della Regione a base di ricatti, con i renziani che minacciano il governatore («Se non rientri sui binari di un confronto politico, anche aspro ma leale, non ti garantiamo l’appoggio sugli atti a cui tieni tanto») e Rossi che fa sapere di essere pronto a dimettersi e mandare tutti a casa, è invece un problema che riguarda i cittadini toscani. L’urgenza delle questioni sul tappeto — dalle infrastrutture agli accordi di programma per le città colpite dalla crisi economica— richiederebbe una coesione politica forte, innovativa e dinamica della maggioranza di governo in Toscana.
Un passo indietro è forse ancora possibile. Ad esempio Enrico Rossi dovrebbe ricordare l’appoggio che Matteo Renzi gli diede per diventare presidente della Regione nel 2010, riconfermandolo poi nel 2015, con un’intervista agostana che suscitò non pochi mal di pancia tra qualche fedelissimo dell’ex premier, desideroso di diventare lui governatore. D’altra parte Renzi e i suoi seguaci non possono dimenticare il coraggio di Rossi nel portare avanti la fusione degli aeroporti di Pisa e Firenze, nonostante l’ostilità dei suoi compagni pisani. Come dire che nella passata legislatura l’intesa tra Rossi e i renziani, pur nella diversità politica, è stata alla base di importanti atti riformatori, come la legge sul paesaggio. Molte questioni avviate — dagli accordi di programma alle infrastrutture — ora aspettano di essere avviate a compimento. Ma sarà dura con una Regione politicamente semiparalizzata.