Ma adesso Renzi tornerà Renzi?
Congelato l’Alieno, vale a dire Matteo Renzi, nel Pd è ricominciata la stagione dei caminetti, delle riunioni di corrente, dei conciliaboli e dei riti romani. D’altronde, c’è un congresso alle porte (domani la direzione del Pd chiarirà meglio la tempistica) e Renzi si presenta come il grande sconfitto. Per chi non lo ama, è l’occasione per saltargli al collo, per chi lo ha amato solo per convenienza è il momento di capire se riuscirà mai a tornare a Palazzo Chigi e muoversi quindi di conseguenza. È il caso, quest’ultimo, di Dario Franceschini. Il ministro della Cultura da settimane riunisce i suoi: l’obiettivo è arrivare a scadenza naturale e votare nel 2018. Franceschini sa che Renzi non può reggere un anno di logoramento, è una questione psicologica oltre che politica. Chi ha parlato con l’ex premier in questi giorni ha percepito quanto pesante sia stata la botta che ha preso al referendum, ma ancora più dure sono state le settimane successive alla sconfitta. Sa di aver sbagliato — in una cosa che gli riusciva bene: capire la famosa pancia del Paese — ma non pare avere ancora chiara una strategia vincente.
Il segretario del Pd si sente assediato e non si fida molto del ministro. Ma neanche il ministro, che per essere ricandidato alle prossime elezioni avrebbe bisogno di una deroga dal Pd, si fida granché. Alcuni renziani si stupiscono che l’ex segretario abbia riesumato la sua corrente e si stia attrezzando in vista del congresso. Non si capisce il motivo di tanto stupore: non puoi chiedere a Franceschini di non essere se stesso. Peraltro non è il solo a riunirsi e ad allargarsi, a prendere le distanze, a precisare, a correggere la rotta rispetto al disegno renziano. Andrea Orlando, di solito non ostile a Renzi, in un’intervista all’Huffington Post dice che il Pd è da rifondare e che il suo sostegno al leader uscente al prossimo congresso non è scontato. «Attendo di capire quale è la proposta politica. La chiave, a mio avviso, è la profondità». E aggiunge: «Io spero che Renzi, al di là della procedura, si ponga un problema fondamentale. Che parli al Paese e riconosca le ragioni espresse nel voto del referendum». In questo, peraltro, il ministro della Giustizia si distanzia anche da Matteo Orfini, compagno di corrente nei Giovani Turchi, che invece per il momento ha dimostrato lealtà al segretario. Massimo D’Alema ormai spadroneggia, è tornato a rilasciare interviste da una pagina ai principali giornali, detta la linea all’opposizione a Renzi, evoca scissioni, spiega come deve andare il mondo. Tutti vogliono attenzioni, avanzano richieste, annunciano soluzioni che suonano come offerte d’aiuto parecchio interessate.
Enrico Rossi ormai ha preso la via dello scontro frontale e predica rivoluzioni socialiste. Il Mezzogiorno è in mano agli sceriffi; Vincenzo De Luca fa il suo movimento, «Campania Libera», Michele Emiliano si erge a paladino populista. Tra i renziani non c’è la solida compattezza di un tempo. C’è chi non riesce a stare al passo del leader, che pare un tarantolato e cambia idea ogni cinque minuti. Resta la lealtà di Graziano Delrio e di Matteo Richetti, il quale dopo un periodo di freddezza è tornato ad avere un colloquio serrato con l’ex inquilino di Palazzo Chigi. I due discutono molto, ma Renzi pare ascoltarlo. «Renzi torni a fare Renzi. Matteo — dice oggi Richetti — non può diventare il notaio degli accordi correntizi. La cronaca politica quotidiana è fatta di incontri di capicorrente che si confrontano. A me di tutto questo non importa nulla: io rivoglio il Renzi che diceva “non si ferma il vento con le mani”, quello del 2012. Attenzione non serve un ritorno al passato; serve solo che torni quel Renzi lì, quello che non faceva sconti sulla radicalità del messaggio, sull’innovazione della politica, sul linguaggio e sulle forme di partecipazione. Era il Renzi che rompeva i tabù con i quali il centrosinistra si era confinato al 25 per cento. Era il Renzi che prendeva voti nel centrodestra».
Quella però era un’altra frase storica e non è detto che alcune cose si ripetano. Renzi aveva inizialmente vinto la sua scommessa per la sua capacità di suscitare speranza. La speranza è una narrazione vincente, ma crea aspettative che poi uno deve mantenere, se non vuole creare illusioni e delusioni, che vanno a vantaggio dei franceschini qualunque.
Il ministro raduna da mesi i suoi Spera che Gentiloni duri fino al 2018, e l’ex premier si logori nell’attesa Cronaca, cronaca politica. Dai palazzi romani, ma anche dalle piazze (e da qualche retrobottega) di tutta Italia. Per capire che cosa ci è successo nell’ultima settimana. E cosa c’è da aspettarsi da quella successiva Twitter @davidallegranti