LOCCHI, POETA SOLDATO DA RICORDARE
Quando un secolo fa moriva inghiottito dalle acque dell’Egeo dopo il siluramento del piroscafo «Minas», il tenente Vittorio Locchi aveva 28 anni: due di meno di Ippolito Nievo quando nel 1861 affogava nel naufragio del vapore «Ercole». Entrambi erano stati poeti soldati: Nievo era stato uno dei Mille, Locchi, volontario nella Grande Guerra, era imbarcato per una missione in Palestina. Ed entrambi lasciavano un capolavoro inedito: Le Confessioni d’un italiano uscirono nel 1867; la Sagra di Santa Gorizia fu pubblicata un mese dopo la sua scomparsa.
Aveva inizio così la fortuna di un autore che sino ad allora aveva cercato la sua strada fra il teatro, il giornalismo e la poesia. Locchi non era un poeta laureato. Scolaro irrequieto, si era trasferito a Firenze dalla nativa Figline, che si accinge a onorarlo, per studiare ragioneria. E qui fece l’incontro che avrebbe segnato la sua vita: l’insegnante di lettere e letterato Diego Garoglio. Il «poeta professore», come, con un rigurgito di acidità da vecchio stroncatore, lo liquidò Papini, scoprì la vocazione lirica di quell’allievo esuberante. Nel 1909 Locchi si diplomò ragioniere, senza abbandonare la poesia. A Figline animò la Brigata del Giacchio e quando, entrato alle Poste, si trasferì a Venezia, fondò l’associazione La Tavolissima, collaborò a periodici, mise in scena commedie, pubblicò liriche.
Quando il conflitto mondiale pose l’Italia di fronte al dilemma fra neutralità e intervento, Locchi, fervente patriota, non ebbe dubbi, come non li ebbe il suo maestro Garoglio, che pure era stato esponente del Psi. Comiziò sui tavolini di piazza San Marco e seguì come inviato dell’Idea nazionale lo storico discorso di d’Annunzio a Quarto. Il 25 maggio era sotto le armi, nel servizio postale. Ma il ruolo di «postelegrafonico con le stellette» gli andava stretto e volle partecipare in prima linea alla presa di Gorizia.
Il generale Ruggeri Laderchi gli chiese di commemorare l’impresa con un poemetto. E qui avvenne il miracolo: il poeta ragioniere compose quella che, con la Canzone del Piave, resta l’unica grande poesia epica della nostra guerra. Nelle lasse in versi sciolti della Sagra di Santa Gorizia l’entusiasmo patriottico, l’ardore guerriero, l’impazienza di un popolo in armi ansioso di sbalzare dalla trincea sono espressi in un linguaggio lontano dal dannunzianesimo imperante. Locchi cantava l’attesa dei fanti, l’ondeggiare delle baionette, l’entusiasmo dei «sottotenentini, ragazzi imberbi e gioviali, che la gente seria, una volta, chiamava bèceri quando rompevano i vetri e stracciavano le bandiere ai Consolati d’Austria».
Il siluro che affondò il «Minas» gli risparmiò la vergogna di Caporetto, l’effimero entusiasmo di Vittorio Veneto, le umiliazioni della «Vittoria mutilata». Gli risparmiò anche il dolore di vedere la «sagra» sostituita nelle antologie dalle strofe di O Gorizia tu sei maledetta, la canzone anarchica reinventata dalla controcul- tura del ’68. In realtà, fra i richiamati alle armi vi fu certo chi maledisse la città per la cui conquista morirono 50.000 soldati e 1.759 «maledetti signori ufficiali». Ma, come ha riconosciuto Mario Isnenghi, già esponente di quella controcultura, fra i combattenti furono in molti a esultare per la liberazione della città irredenta.
Per questo è giusto ricordare Locchi, non per le strade e per i monumenti a lui dedicati, ma perché interpretò come pochi un momento indimenticabile della nostra storia. C’è stato un tempo in cui un verso come «Notte del 7 Agosto, chi ti dimenticherà!» era il cavallo di battaglia dei fini dicitori. Quel tempo è passato, ma la Toscana farebbe bene lo stesso a non dimenticare la sagra di Vittorio Locchi.
Lui e la Grande Guerra Nella «Sagra di Santa Gorizia» cantò l’entusiasmo patriottico e il popolo in armi