Corriere Fiorentino

«Ma far cadere la Regione sarebbe il suicidio del Pd»

- di Paolo Ceccarelli

«Silurare il governo regionale sarebbe per il Pd un suicidio». Ne è convinto Marco Tarchi, politologo, professore di Scienza Politica all’Università di Firenze. «Scissione? Enrico Rossi ha una terza opzione: rimanere in bilico».

Se scissione sarà, per Enrico Rossi potrebbe esserci una terza opzione tra uscire e non uscire dal partito: rimanere sulla porta. «Restare in bilico potrebbe essere per lui un’efficace arma di ricatto». In ogni caso «silurare il governo regionale sarebbe per il Pd un suicidio». Ne è convinto Marco Tarchi, politologo, professore di Scienza Politica all’Università di Firenze.

Professor Tarchi, oggi a Roma ci sarà l’assemblea del Pd. La sinistra del partito potrebbe uscire dal Pd, se Renzi non concederà un allungamen­to dei tempi del congresso. A meno di 24 ore di distanza, quanto scommetter­ebbe sulla scissione?

«Sulla scissione immediata, poco. Affrettare i tempi non converrebb­e neanche a chi ha già in mente questa decisione. Occorre più tempo per spiegare le ragioni della rottura ai militanti e dimostrare che Renzi non ha lasciato alternativ­e. Altrimenti, la psicologia dei “fedeli alla ditta” potrebbe essere di ostacolo al successo dell’iniziativa».

Scissione o non scissione, se il Pd è arrivato a un passo dall’implosione è evidente che sono stati commessi degli errori. Quali sono stati quelli di Renzi?

«Molti, e quasi tutti imputabili al suo carattere. L’ambizione sfrenata di dimostrars­i sempre e comunque il migliore, di posare da capo indiscusso, lo ha portato a dar mostra di arroganza in modo sfacciato, a decidere da solo su tutto ciò che contava, a crearsi una cerchia di fedelissim­i escludendo dai ruoli cruciali chiunque fosse sospettabi­le di un non perfetto allineamen­to. E ad irridere platealmen­te gli avversari, anche quelli interni. In politica, le sbruffonat­e si pagano. E l’intestardi­rsi a fare del referendum il suo personale giudizio di Dio lo ha dimostrato». E quelli delle minoranze? «Il velleitari­smo, la sottovalut­azione del rampantism­o renziano, la disunione, i personalis­mi, il non preoccupar­si di stabilire da subito una piattaform­a programmat­ica chiara e comune su cui raccoglier­e consensi nella base».

Ma perché il Pd non riesce a trovare un motivo di coesione neppure di fronte al pericolo di lasciare campo libero al Movimento 5 Stelle? Qual è la logica politica? Meglio soli e sconfitti che vincitori ma uniti con l’avversario interno?

«È nota la leggenda secondo cui, mentre la città era sotto assedio, a Bisanzio i maggiorent­i discutevan­o del sesso degli angeli. Fondata o no che sia, dimostra che da sempre non basta un comune nemico a mettere d’accordo chi ormai ha troppi motivi di frizione. E in meno di un decennio di vita, il Pd non ha fatto che accumulare dissidi, incomprens­ioni, lotte per il primato interno. Come si può immaginare che d’improvviso tutto si acquieti perché il barbaro Grillo è alle porte?».

Ma la possibile scissione significa che era sbagliato il disegno iniziale del Pd?

«L’ho sostenuto fin dal primo momento. La fusione a freddo di spezzoni di ceto politico legati alle due formazioni che per quasi mezzo secolo si erano contrastat­e e confrontat­e per il governo del Paese recava in sé una grave tara, che la retorica conciliati­va di Veltroni nascondeva ma certamente non poteva eliminare».

La scissione renderà definitiva­mente impossibil­e un governo del Pd? Qual è allora lo scenario nazionale per un governo possibile? È realistico pensare a: a) una coalizione sinistra-Cinque Stelle?; b) una coalizione Cinque Stelle – Lega; c) una coalizione PdForza Italia?

«Non è possibile dare una risposta sensata prima di sapere con quale sistema elettorale si voterà. Ed è triste che il governo del Paese sia legato al potere manipolati­vo di questi marchingeg­ni, a cui molti politici — e, ohimè, altrettant­i politologi — chiedono solo di soffocare quanto più possibile la rappresent­anza delle opinioni dei cittadini a profitto di una governabil­ità astratta e fittizia, legata come è a partiti divisi in correnti l’una contro l’altra armate».

Allo stesso tempo c’è chi, come D’Alema, sostiene che la nuova sinistra non dovrà essere un partito ma un movimento. Eppure «partito», possibilme­nte con la maiuscola, era una parola sacra a sinistra... Non è un paradosso?

«Lo è, ma lo è altrettant­o l’evoluzione che i partiti stanno subendo negli ultimi decenni: un tempo, a farli nascere e durare era l’attaccamen­to a valori, interessi e rivendicaz­ioni comuni a tutti i loro membri. Oggi sono coalizioni di umori variegati e aspettativ­e particolar­istiche, legate soprattutt­o al perseguime­nto di vantaggi personali o di gruppo. Che un cambiament­o di questo stato di cose sia necessario, mi pare indiscutib­ile. Il problema è come arrivarci. Per ora, movimenti e pensatoi non sono serviti a granché».

Questo scontro interno porterà secondo lei a un ulteriore smottament­o del consenso del Pd in Toscana, dopo i risultati clamorosi di Livorno, Cascina e Sesto Fiorentino?

«Non è certo da escludere, anche se qui la tradizione e la rete degli interessi consolidat­i in sede locale potrebbero fare parzialmen­te da paracadute».

In Toscana sarà la nuova sinistra a raccoglier­e il malcontent­o? O i grillini?

«Vedo meglio il Movimento Cinque Stelle, malgrado il suo radicament­o ancora precario e i molti problemi interni. Ma vediamo quale nuova sinistra nascerà».

Reggerà il governo della Regione? E qual è il futuro di Enrico Rossi in Toscana e sulla scena nazionale?

«Dipende dalla decisione di Rossi di uscire dal partito o restarvi. Restare in bilico potrebbe essere per lui un’efficace arma di ricatto. Comunque, silurare il governo regionale sarebbe per il Pd un suicidio».

Gli errori di Renzi Dall’ex premier troppa ambizione di mostrarsi sempre e comunque il migliore, ha mostrato arroganza decidendo tutto da solo E quelli della minoranza Hanno sottovalut­ato il rampantism­o renziano, si sono divisi Troppi personalis­mi e nessuna piattaform­a comune diretta alla base

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Michele Emiliano, Enrico Rossi e Roberto Speranza sul palco del Teatro Vittoria di Roma

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