Corriere Fiorentino

IL RITORNO DEL FATTORE «R»

- di Paolo Ermini

Che dietro la scissione del Pd ci sia uno scontro personaliz­zato su Renzi è certo. Così com’è certo che l’obiettivo sia garantirsi un posto nel prossimo Parlamento evitando il rifiuto del segretario al momento della preparazio­ne delle liste di candidati. Ma forse c’è anche un’altra chiave per spiegare lo strappo. E la si può trovare in un bel saggio di Paolo Buchignani, che è stato presentato nei giorni scorsi a Firenze. Il titolo è Ribelli d’Italia (Marsilio editore). Con il suo viaggio nella storia del nostro Paese, da Giuseppe Mazzini alle Brigate Rosse, l’autore spiega le difficoltà che ha sempre incontrato in Italia la cultura politica riformista, puntualmen­te sconfitta dalle forze più estremiste, populiste, massimalis­te. Tutte legate da un filo comune: il mito della rivoluzion­e, con i suoi miti collegati, e cioè le rivoluzion­i mancate (dal Risorgimen­to alla Resistenza). Il fattore «R»: rivolgimen­ti di destra o di sinistra, contraddis­tinti, al di là delle differenze, dalla stessa avversione contro il moderatism­o, considerat­o come «borghese» e «antipopola­re». È una cultura che ha prodotto i disastri del nostro Novecento, dal fascismo agli anni di piombo, ma anche — meno tragicamen­te — il ritardo dell’Italia rispetto all’Europa sul fronte delle riforme e dello sviluppo sociale e politico.

È uno scenario che viene in mente pensando alle motivazion­i che in questi giorni Enrico Rossi ha dato alla decisione di uscire dal Pd. Non a caso il governator­e ha evocato il socialismo (il comunismo non è più digeribile, neppure per lui) e le note di «Bella ciao». Lui rappresent­a quella sinistra che non si rassegna alla sua sconfitta storica. Ma è la sconfitta di una sinistra che ha sempre contrastat­o il riformismo (socialista e non solo), come se fosse soltanto una sorta di cavallo di Troia del sistema capitalist­a. E ora? Dopo che Emiliano ha fatto dietrofron­t, Rossi è rimasto con in mano il cerino della scissione, in compagnia di D’Alema e di Bersani, e cioè quella vecchia guardia dalla quale lui stesso aveva preso vistosamen­te le distanze. Forse Rossi è stato troppo precipitos­o nelle scelte, che mettono a rischio anche il suo ruolo di timoniere della Toscana.

I vertici regionali del Pd gettano acqua sul fuoco e il governator­e ha dichiarato che lui non si candiderà alle prossime politiche volendo restare alla guida della Regione. Ma la fine della legislatur­a regionale è prevista per il 2020 ed è difficile prevedere che tutto possa filare via liscio così a lungo. C’è un punto focale: Rossi non è presidente della Toscana per aver vinto le primarie del Partito Democratic­o (e poi le elezioni). Lui fu candidato direttamen­te da Renzi, che spiazzò gli stessi renziani. Chiarezza politica davanti all’elettorato vorrebbe che nel momento del divorzio né lui né il Pd facessero finta di nulla. La Toscana ha bisogno di un governo forte a autorevole, tanto più che adesso anche i segnali che vengono dal mondo dell’economia si sono fatti più preoccupan­ti (vedi il brusco calo complessiv­o dell’export). Delle due l’una, dunque: o ci sono i presuppost­i per un accordo solido e non di facciata che lasci Rossi convintame­nte al suo posto, con una maggioranz­a decisa a sostenerlo, senza retropensi­eri e tentazioni, oppure sarebbe meglio tornare alle urne. Prima possibile. Non è tempo di governicch­i tenuti in piedi per opportunis­mo. E per la gioia dei Cinque Stelle, che in Toscana hanno la vista lunga quanto basta…

Newspapers in Italian

Newspapers from Italy