A Livorno la droga delle cosche
Cocaina dalla Colombia al porto, la ‘ndrangheta pagava per farla passare: dieci arresti
Arrivava dalla Colombia nascosta nei container dei mercantili. Il lungo viaggio della cocaina finiva al porto di Livorno, dove veniva scaricata in gran segreto prima dei controlli doganali per poi essere ceduta alle cosche calabresi della ‘ndrangheta. È quanto emerge dall’inchiesta della direzione distrettuale antimafia di Firenze che ha coordinato le indagini di Guardia di Finanza di Pisa e dei carabinieri di Livorno, portando all’arresto di dieci persone. Indagini che erano partite dall’omicidio di Giuseppe Raucci, trovato cadavere nel bagagliaio della sua auto alla Ginestra Fiorentina nel dicembre 2015, una vera esecuzione per un affare finito male: gli avevano ceduto zucchero al posto della cocaina. Da quel delitto gli investigatori hanno ricostruito il traffico di droga dalla Colombia fino alla Darsena di Livorno.
Il regista delle operazioni di sbarco, secondo gli inquirenti, è Riccardo Del Vivo, pregiudicato livornese di 67 anni, che metteva la propria organizzazione al soldo delle cosche in cambio di uno stipendio mensile da 20 mila euro e percentuali in droga. Gli incontri con i rappresentanti della ‘ndrangheta avvenivano nei posti più disparati. Una volta anche tra le lapidi del cimitero dei Lupi di Livorno, dove riceve un «pizzino» che indica il numero del container carico di coca in arrivo dalla Colombia. Per portare avanti i suoi affari poteva contare su una rete di persone che lavoravano in darsena, tra cui anche due guardie giurate. «I portuali — scrive il gip — potevano prendere un container metterlo a terra o in una certa posizione in modo che le telecamere non riprendessero il portello che si apriva». I vigilantes fornivano, secondo gli inquirenti, anche i giubbotti catarifrangenti ai membri della banda che entravano con l’auto sulla banchina — contando sull’assenza di controlli — toglievano i sigilli del container, prelevavano la droga e poi riponevano i sigilli senza lasciare tracce.
Ieri Del Vivo è finito in carcere in esecuzione di una misura cautelare firmata dal gip di Firenze Antonio Pezzuti. Insieme a lui, il braccio destro anch’egli livornese, Gino Giovannetti, 65 anni e il referente in Calabria Domenico Lentini, considerato dagli inquirenti il rappresentante in Toscana della cosca Piromalli-Molè. In carcere anche Massimo Bulletti, 64 anni e Emanuele Galia, 52. Il gip ha disposto i domiciliari, invece, per Ivano Sighieri, 66 anni, il portuale Marco Corolini, 39 anni, Luca Adami, 28 anni, Gabriele Bandinelli, 40 anni, Luis Aldo Damian Lemucchi, 26 anni, argentino. Colpiti da misure interdittive due guardie giurate al libro paga di Del Vivo per coprire le attività della banda nel porto: per dodici mesi non possono svolgere attività. Restano in libertà invece due donne indagate per aver un ruolo logistico nella organizzazione: per loro il gip ha respinto la richiesta di misura. «L’organizzazione agiva da tempo con meccanismi e alleanze oleate — ha detto il procuratore Giuseppe Creazzo - Del Vivo era il regista, il leader del gruppo».
In circa un anno e mezzo di indagine gli investigatori hanno quantificato un traffico di cocaina tra il Sudamerica e il porto di Livorno di circa 437 kg, tutto stupefacente puro al 90%. Solo il sequestro fatto sotto casa di Del Vivo nel settembre 2016 di 134 kg (120 panetti in cinque grandi zaini) di cocaina sarebbe valso sul mercato degli stupefacenti circa 5 milioni di euro per l’organizzazione.
«Un’organizzazione criminale aveva trasformato il porto di Livorno in un hub internazionale per il traffico di droga — il commento del sindaco Filippo Nogarin — fa male vedere che alcuni lavoratori del porto avrebbero facilitato il lavoro di questi criminali prestandosi a questo sporco gioco. È la prova che avevamo ragione, quando mesi fa denunciavamo il tentativo delle ‘ndrine calabresi di creare un ponte di collegamento tra la Colombia e l’Italia sfruttando il nostro porto. La lezione è semplice: mai abbassare la guardia».