MA LA MORTE È UN REALITY?
La censuriamo e spesso ci illudiamo di poterla controllare, quando però ci colpisce all’improvviso ne facciamo un fenomeno. Il caso del film «Omicidio all’italiana», dove un fatto di sangue diventa uno show
mmersi come siamo nella nostra rassicurante routine, la possibilità concreta della violenza e della morte ci appare spesso remota, molto distante da noi.
L’aspettativa del dolore è relegata spesso in un angolo della coscienza
E la censuriamo con lo stesso ingenuo automatismo con cui programmiamo filtri alla TV per evitare che i nostri figli inciampino in programmi non adatti ai minori. Allo stesso modo — complice l’edulcorazione delle informazioni, che ci fa apparire come estranei persino i conflitti armati a cui il Paese in cui viviamo prende parte — releghiamo in un angolo della coscienza l’aspettativa del dolore, sebbene i media ci esortino ad un atteggiamento iperempatico verso ogni forma di sofferenza, rendendola, di fatto, un tabù.
Così la morte viene scotomizzata, coperta dietro il velo rassicurante dell’assistenza sanitaria ed esorcizzata con la medicina preventiva. Si alimenta quasi l’illusione di poterle sfuggire, incasellando la caducità in un rapporto di causa ed effetto: si muore perché si è colpevoli di non aver smesso di fumare, di aver saltato l’annuale mammografia o di non aver tenuto sotto controllo la glicemia. E sebbene la prevenzione sia effettivamente fondamentale per allungare la vita, sono molti i comportamenti spesso del tutto irrazionali che mettiamo in atto per allontanare la paura della morte: dall’aderenza ai dettami di medicine non tradizionali, che promettono cure miracolose, all’ossessione del mangiar sano.
In questo contesto, gli eventi che, sfuggendo al nostro controllo, ma imponendosi per gravità alla nostra attenzione, sconvolgono quello che noi consideriamo lo scorrere naturale delle cose, ci trovano del tutto privi di difesa. Può trattarsi dell’attentato alle Torri Gemelle o di quello di Parigi, ma anche della rielaborazione retrospettiva dell’Olocausto o della Seconda Guerra Mondiale. Tutti avvenimenti che, in un Edvard Munch, «La morte nella stanza della malata» (Oslo), a destra Sabrina Ferilli in una scena del film «Omicidio all’italiana» di Maccio Capatonda contesto più ampio, fanno anch’essi parte, fosse solo statisticamente, della vita, ma verso cui siamo impreparati. Le popolazioni che vivono in zone di guerra sanno bene quanto la morte — non quella naturale, ma quella improvvisa, sanguinosa, violenta — faccia parte della normalità della vita. Noi ci illudiamo di poterla controllare, cosicché, quando ci colpisce in modo improvviso, ne facciamo un fenomeno, un monstrum, un qualcosa «degno di nota», per sottolinearne l’eccezionalità e convincerci che no, non potrà toccare anche a noi.
E in questo gli eventi di cronaca nera sono particolarmente subdoli, perché ci ricordano che la minaccia al fragile cielo di carta sotto al quale ci nascondiamo non è da ricercare solo nel cosiddetto mondo esterno, ma può anche provenire dalla nostra sfera personale, dai nostri amici, dai nostri familiari, da noi stessi. Ecco che appena accade un fatto di sangue desideriamo accedere a tutte le informazioni possibili, toccare con mano, delimitare, razionalizzare, per prendere alla fine le distanze e tirare un sospiro di sollievo. Spesso si cerca anche un colpevole, un capro espiatorio che accolga in sé la responsabilità dell’alterità, che sia facilmente etichettabile come mostro, così che l’empatia verso di lui possa essere sollevata. Vogliamo rinfrancarci sul fatto che l’accaduto sia imputabile ad un’anomalia, a un’eccezione, e non sia ascrivibile a dinamiche sociali o a disturbi comportamentali, psicopatologici o meno, comunque attestati nella gamma dell’ordinario.
Nel film Omicidio all’italiana di Maccio Capatonda, commedia dalla comicità surreale e grottesca in questi giorni nelle sale, il meccanismo mediatico tramite cui un fatto di sangue viene reso spettacolo, soggiacendo, alla fine, alle leggi di quest’ultimo, viene smascherato con consapevole ironia: non si tratta più di un evento reale, che come tale debba essere indagato per arrivare a una risoluzione ed eventualmente a fare giustizia, ma diventa una storia da raccontare, che deve avere una trama avvincente, ricca di colpi di scena e concludersi in modo non banale, per soddisfare gli «spettatori» e generare un profitto.
Il tentativo di fare business con la notizia di un evento di sangue, che riesca a superare i filtri che proteggono la nostra normalità asettica, non violenta e politicamente corretta, avviene, quindi, da una parte, con la ricerca di rassicurazione tramite l’informazione esasperata, sino ai dettagli più insignificanti — che permette contestualizzare l’avvenuto in un ambito «altro» rispetto al nostro — dall’altra, attraverso un processo di spettacolarizzazione, di esaltazione della singolarità, paradossalmente funzionale all’evitamento: perché la trasformazione che ci si affretta a fare permette di non doversi confrontare con il fatto come eventualità reale nella nostra vita, relegandolo a un universo di eccezionalità il cui confine sfuma nel reality e la cui consistenza assume la forma della narrazione.
* Direttore Clinica Psichiatrica Università di Pisa, Vice Presidente Società Italiana di Psichiatria