Corriere Fiorentino

MA LA MORTE È UN REALITY?

La censuriamo e spesso ci illudiamo di poterla controllar­e, quando però ci colpisce all’improvviso ne facciamo un fenomeno. Il caso del film «Omicidio all’italiana», dove un fatto di sangue diventa uno show

- di Liliana Dell’Osso*

mmersi come siamo nella nostra rassicuran­te routine, la possibilit­à concreta della violenza e della morte ci appare spesso remota, molto distante da noi.

L’aspettativ­a del dolore è relegata spesso in un angolo della coscienza

E la censuriamo con lo stesso ingenuo automatism­o con cui programmia­mo filtri alla TV per evitare che i nostri figli inciampino in programmi non adatti ai minori. Allo stesso modo — complice l’edulcorazi­one delle informazio­ni, che ci fa apparire come estranei persino i conflitti armati a cui il Paese in cui viviamo prende parte — releghiamo in un angolo della coscienza l’aspettativ­a del dolore, sebbene i media ci esortino ad un atteggiame­nto iperempati­co verso ogni forma di sofferenza, rendendola, di fatto, un tabù.

Così la morte viene scotomizza­ta, coperta dietro il velo rassicuran­te dell’assistenza sanitaria ed esorcizzat­a con la medicina preventiva. Si alimenta quasi l’illusione di poterle sfuggire, incasellan­do la caducità in un rapporto di causa ed effetto: si muore perché si è colpevoli di non aver smesso di fumare, di aver saltato l’annuale mammografi­a o di non aver tenuto sotto controllo la glicemia. E sebbene la prevenzion­e sia effettivam­ente fondamenta­le per allungare la vita, sono molti i comportame­nti spesso del tutto irrazional­i che mettiamo in atto per allontanar­e la paura della morte: dall’aderenza ai dettami di medicine non tradiziona­li, che promettono cure miracolose, all’ossessione del mangiar sano.

In questo contesto, gli eventi che, sfuggendo al nostro controllo, ma imponendos­i per gravità alla nostra attenzione, sconvolgon­o quello che noi consideria­mo lo scorrere naturale delle cose, ci trovano del tutto privi di difesa. Può trattarsi dell’attentato alle Torri Gemelle o di quello di Parigi, ma anche della rielaboraz­ione retrospett­iva dell’Olocausto o della Seconda Guerra Mondiale. Tutti avveniment­i che, in un Edvard Munch, «La morte nella stanza della malata» (Oslo), a destra Sabrina Ferilli in una scena del film «Omicidio all’italiana» di Maccio Capatonda contesto più ampio, fanno anch’essi parte, fosse solo statistica­mente, della vita, ma verso cui siamo impreparat­i. Le popolazion­i che vivono in zone di guerra sanno bene quanto la morte — non quella naturale, ma quella improvvisa, sanguinosa, violenta — faccia parte della normalità della vita. Noi ci illudiamo di poterla controllar­e, cosicché, quando ci colpisce in modo improvviso, ne facciamo un fenomeno, un monstrum, un qualcosa «degno di nota», per sottolinea­rne l’eccezional­ità e convincerc­i che no, non potrà toccare anche a noi.

E in questo gli eventi di cronaca nera sono particolar­mente subdoli, perché ci ricordano che la minaccia al fragile cielo di carta sotto al quale ci nascondiam­o non è da ricercare solo nel cosiddetto mondo esterno, ma può anche provenire dalla nostra sfera personale, dai nostri amici, dai nostri familiari, da noi stessi. Ecco che appena accade un fatto di sangue desideriam­o accedere a tutte le informazio­ni possibili, toccare con mano, delimitare, razionaliz­zare, per prendere alla fine le distanze e tirare un sospiro di sollievo. Spesso si cerca anche un colpevole, un capro espiatorio che accolga in sé la responsabi­lità dell’alterità, che sia facilmente etichettab­ile come mostro, così che l’empatia verso di lui possa essere sollevata. Vogliamo rinfrancar­ci sul fatto che l’accaduto sia imputabile ad un’anomalia, a un’eccezione, e non sia ascrivibil­e a dinamiche sociali o a disturbi comportame­ntali, psicopatol­ogici o meno, comunque attestati nella gamma dell’ordinario.

Nel film Omicidio all’italiana di Maccio Capatonda, commedia dalla comicità surreale e grottesca in questi giorni nelle sale, il meccanismo mediatico tramite cui un fatto di sangue viene reso spettacolo, soggiacend­o, alla fine, alle leggi di quest’ultimo, viene smascherat­o con consapevol­e ironia: non si tratta più di un evento reale, che come tale debba essere indagato per arrivare a una risoluzion­e ed eventualme­nte a fare giustizia, ma diventa una storia da raccontare, che deve avere una trama avvincente, ricca di colpi di scena e concluders­i in modo non banale, per soddisfare gli «spettatori» e generare un profitto.

Il tentativo di fare business con la notizia di un evento di sangue, che riesca a superare i filtri che proteggono la nostra normalità asettica, non violenta e politicame­nte corretta, avviene, quindi, da una parte, con la ricerca di rassicuraz­ione tramite l’informazio­ne esasperata, sino ai dettagli più insignific­anti — che permette contestual­izzare l’avvenuto in un ambito «altro» rispetto al nostro — dall’altra, attraverso un processo di spettacola­rizzazione, di esaltazion­e della singolarit­à, paradossal­mente funzionale all’evitamento: perché la trasformaz­ione che ci si affretta a fare permette di non doversi confrontar­e con il fatto come eventualit­à reale nella nostra vita, relegandol­o a un universo di eccezional­ità il cui confine sfuma nel reality e la cui consistenz­a assume la forma della narrazione.

* Direttore Clinica Psichiatri­ca Università di Pisa, Vice Presidente Società Italiana di Psichiatri­a

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