UNA SCISSIONE, DUE LIBERAZIONI
Matteo Renzi potrebbe dire del presidente della Regione Toscana ciò che Palmiro Togliatti disse di Elio Vittorini: «Enrico Rossi se n’è ghiuto e soli ci ha lasciato». Non l’ha detto ma l’avrà pensato. Anche se l’ironia non è il suo forte. Non ha fatto nulla per impedire che Rossi tagliasse i ponti e se ne andasse. E lo si può capire. Questa dipartita, forse, Renzi l’ha accolta come una liberazione. Non si è lamentato che la coesistenza pacifica tra i due sia venuta meno dall’oggi al domani. Lo ha indispettito il fatto che l’inizio della fine porti una data precisa. E cioè il 4 dicembre scorso, quando l’ex premier fu costretto a dire addio ai sogni di gloria. Addio a una riforma costituzionale che a suo insindacabile giudizio — per dirla con Ettore Petrolini nei panni di Nerone dopo l’incendio di Roma — avrebbe fatto la Repubblica «più bella e più grande che pria».
Molti — non ultimo Rossi — hanno approfittato del momento di debolezza dell’ex segretario del Pd per rimproverargli ogni cosa. A riprova che nulla dà più insuccesso dell’insuccesso. Di punto in bianco accuse di errori a non finire. E anche Rossi ha alzato sempre più il tiro. Uno stillicidio. Al punto che un notorio antipatizzante come Gustavo Zagrebelsky su La Stampa del 9 marzo scorso ha ritenuto doveroso ergersi a difensore d’ufficio dell’ex sindaco di Firenze. Alla domanda su come vedesse adesso Renzi, il costituzionalista torinese ha così risposto: «Sfibrato e sempre più isolato, vittima di una certa viltà di coloro che gli sono stati intorno non senza adulazioni e connessi benefici e ora, nella difficoltà, lo stanno abbandonando. Soltanto per questo, merita simpatia».
Anche Rossi ha vissuto la scissione come una sorta di festa della liberazione. Ha assunto una decisione così impegnativa per motivi — per così dire — esistenziali. Sono sue parole, del resto: «Sono uscito dal Pd e non ho assolutamente intenzione di rientrare perché sto meglio dal punto di vista fisico e mentale: canto, posso dire quello che penso, posso fare battaglie nelle quali credo».
Ancora: «Mirano a farmi saltare i nervi, perché sono uscito dal Pd e ho un ruolo istituzionale». Così parlò il grillo canterino. Ora, avrebbe ragioni da vendere se fosse viva e vegeta quella partitocrazia che Giuseppe Maranini considerava un tiranno senza volto. Ma la caporalesca disciplina di partito ormai è un’esclusiva di Beppe Grillo. Se il Pci era un convento, il Pd è un’associazione di liberi pensatori dove ognuno dice ciò che gli pare. E Rossi vanta una laurea in filosofia. A propria giustificazione però può sempre dire che Renzi è affetto dal complesso del Marchese del Grillo: «Io so’ io e voi nun siete un c…». E questo non lo si può negare. Siamo molto diversi, ha esclamato Rossi. Soprattutto per motivi ideologici. Verissimo. Il governatore della Toscana ha della sinistra una concezione a dir poco arcaica. Si esalta per il pugno chiuso, per Bandiera rossa, per La Locomotiva, addirittura per l’Internazionale. Per uno come lui che viene dal Pci è un amarcord. Ma è proprio per questo che Renzi nella sua replica al Lingotto di Torino ha infilzato anche lui. Ha dichiarato che essere di sinistra non significa rincorrere un totem del passato, andare sul palco con il pugno chiuso e cantare Bandiera rossa. E ha concluso che questa è una macchietta, non politica. Ha dato un calcio a tutto, Rossi. Ha abbandonato il Pd e si è dimesso da funzionario del partito. Intende restare fino alla fine della legislatura presidente della Regione Toscana. E perciò, dice, rinuncerà a candidarsi alla Camera o al Senato l’anno prossimo. Rischia così di diventare un pensionato di lusso. Però mai dire mai. Un posticino come caratterista in pellicole cinematografiche sulla nascita a Livorno del Pci nel 1921 o sugli anni ruggenti di Togliatti o sul suo prediletto Enrico Berlinguer, filosofo della miseria perché cantore dell’austerità, non glielo toglierebbe nessuno. Chi meglio di lui?