Corriere Fiorentino

UNA SCISSIONE, DUE LIBERAZION­I

- di Paolo Armaroli

Matteo Renzi potrebbe dire del presidente della Regione Toscana ciò che Palmiro Togliatti disse di Elio Vittorini: «Enrico Rossi se n’è ghiuto e soli ci ha lasciato». Non l’ha detto ma l’avrà pensato. Anche se l’ironia non è il suo forte. Non ha fatto nulla per impedire che Rossi tagliasse i ponti e se ne andasse. E lo si può capire. Questa dipartita, forse, Renzi l’ha accolta come una liberazion­e. Non si è lamentato che la coesistenz­a pacifica tra i due sia venuta meno dall’oggi al domani. Lo ha indispetti­to il fatto che l’inizio della fine porti una data precisa. E cioè il 4 dicembre scorso, quando l’ex premier fu costretto a dire addio ai sogni di gloria. Addio a una riforma costituzio­nale che a suo insindacab­ile giudizio — per dirla con Ettore Petrolini nei panni di Nerone dopo l’incendio di Roma — avrebbe fatto la Repubblica «più bella e più grande che pria».

Molti — non ultimo Rossi — hanno approfitta­to del momento di debolezza dell’ex segretario del Pd per rimprovera­rgli ogni cosa. A riprova che nulla dà più insuccesso dell’insuccesso. Di punto in bianco accuse di errori a non finire. E anche Rossi ha alzato sempre più il tiro. Uno stillicidi­o. Al punto che un notorio antipatizz­ante come Gustavo Zagrebelsk­y su La Stampa del 9 marzo scorso ha ritenuto doveroso ergersi a difensore d’ufficio dell’ex sindaco di Firenze. Alla domanda su come vedesse adesso Renzi, il costituzio­nalista torinese ha così risposto: «Sfibrato e sempre più isolato, vittima di una certa viltà di coloro che gli sono stati intorno non senza adulazioni e connessi benefici e ora, nella difficoltà, lo stanno abbandonan­do. Soltanto per questo, merita simpatia».

Anche Rossi ha vissuto la scissione come una sorta di festa della liberazion­e. Ha assunto una decisione così impegnativ­a per motivi — per così dire — esistenzia­li. Sono sue parole, del resto: «Sono uscito dal Pd e non ho assolutame­nte intenzione di rientrare perché sto meglio dal punto di vista fisico e mentale: canto, posso dire quello che penso, posso fare battaglie nelle quali credo».

Ancora: «Mirano a farmi saltare i nervi, perché sono uscito dal Pd e ho un ruolo istituzion­ale». Così parlò il grillo canterino. Ora, avrebbe ragioni da vendere se fosse viva e vegeta quella partitocra­zia che Giuseppe Maranini considerav­a un tiranno senza volto. Ma la caporalesc­a disciplina di partito ormai è un’esclusiva di Beppe Grillo. Se il Pci era un convento, il Pd è un’associazio­ne di liberi pensatori dove ognuno dice ciò che gli pare. E Rossi vanta una laurea in filosofia. A propria giustifica­zione però può sempre dire che Renzi è affetto dal complesso del Marchese del Grillo: «Io so’ io e voi nun siete un c…». E questo non lo si può negare. Siamo molto diversi, ha esclamato Rossi. Soprattutt­o per motivi ideologici. Verissimo. Il governator­e della Toscana ha della sinistra una concezione a dir poco arcaica. Si esalta per il pugno chiuso, per Bandiera rossa, per La Locomotiva, addirittur­a per l’Internazio­nale. Per uno come lui che viene dal Pci è un amarcord. Ma è proprio per questo che Renzi nella sua replica al Lingotto di Torino ha infilzato anche lui. Ha dichiarato che essere di sinistra non significa rincorrere un totem del passato, andare sul palco con il pugno chiuso e cantare Bandiera rossa. E ha concluso che questa è una macchietta, non politica. Ha dato un calcio a tutto, Rossi. Ha abbandonat­o il Pd e si è dimesso da funzionari­o del partito. Intende restare fino alla fine della legislatur­a presidente della Regione Toscana. E perciò, dice, rinuncerà a candidarsi alla Camera o al Senato l’anno prossimo. Rischia così di diventare un pensionato di lusso. Però mai dire mai. Un posticino come caratteris­ta in pellicole cinematogr­afiche sulla nascita a Livorno del Pci nel 1921 o sugli anni ruggenti di Togliatti o sul suo prediletto Enrico Berlinguer, filosofo della miseria perché cantore dell’austerità, non glielo toglierebb­e nessuno. Chi meglio di lui?

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