L’ultima lettera della soprintendente (e tutti i sassolini della cultura)
Paola Grifoni da domani in pensione: «Una liberazione. Si doveva cambiare, ma non così»
A pochi metri in linea d’aria, a Palazzo Pitti, è cominciato il G7 della cultura. Si sentono gli elicotteri, le sirene. A Boboli, nel piccolo appartamento della palazzina Annalena, c’è una signora con la radiolina sul tavolo che scrive con la penna blu una lunga lettera. Accanto ai piedi una stufetta, è primavera, ma la casa è umidissima. I ricordi di una vita ovunque, i libri, tante piccole piante perché nel terrazzo che affaccia su Boboli Paola Grifoni non può mettere piede. È vincolato. Sulla libreria in bella mostra, un pannello rosso con la falce e martello del 1973: «Apertura sede Pci, sezione Testaccio, con il segretario Enrico Berlinguer».
«Ora posso dirlo, io c’ero. Poi 40 anni dopo ho votato sì al referendum...», rivendica Grifoni con uno scatto. Un peso che può finalmente togliersi perché da ieri è cominciata una nuova vita. Giovedì, il giorno del nostro colloquio, è stato il suo penultimo giorno di lavoro. «E stia tranquillo non mi cercherà nessuno, nemmeno tra i suoi colleghi». Ora c’è Schmidt, c’è Hollberg, ci sono gli stranieri. I direttori-manager introdotti dalla riforma Franceschini dei Beni culturali. La segretaria regionale — dal 2015 è il nuovo incarico dell’ex soprintendente Grifoni — non partecipa ai lavori del G7. «Nessuno mi ha invitato, non hanno avuto questa accortezza. Una volta non era così. Andrò a sentire Muti, ma si sono raccomandati, senza accompagnatore». Un’altra epoca. Grifoni prepara il caffè con la moka. Nell’ultima lettera al Ministero c’è il suo piglio deciso. Non pensavamo di dover cominciare questa intervista dalla fine. Ci conosciamo da tempo, lei è così. Non ha mai evitato i problemi e da quelli ci fa partire. Che è successo Grifoni? «Quattro mesi fa mi hanno scritto una reprimenda perché avrei fatto qualcosa di sleale verso l’amministrazione durante un sopralluogo. Una lettera molto brutta per cui adesso chiedo ufficialmente delle scuse e un qualcosa che rivaluti il mio servizio di 37 anni».
Con quale stato d’animo si congeda?
«È una liberazione. Perché è cambiato tutto, forse è anche giusto, cambiano i tempi, cambiano i modi. La cosa che ha sconvolto me e la mia generazione è stata questa riforma che ha stravolto il concetto di ministero per i beni culturali. Una riforma squisitamente amministrativa, ma epocale. Siamo passati da un ministero creato per la tutela e il restauro (invidiato da tutti) a una riforma che privilegia i musei, i tre grandi musei: Uffizi, Colosseo e Pompei. Gli altri 47 che stanno in Toscana sono abbandonati».
Una riforma epocale buona o brutta che sia ha però bisogno di un rodaggio. E in qualche modo i grandi musei devono aiutare i piccoli, se non con la bigliettazione, almeno con i percorsi.
«Forse, sarà. Ma non riusciranno mai a coprire tutto. A Firenze l’Accademia riesce ad autogestirsi, il Bargello no. Lo sapevamo bene. Orsanmichele che ho curato per 25 anni non lo conosce nessuno se non per un veloce sguardo all’“Incredulità di San Tommaso”».
Le vecchie soprintendenze e il turismo non sono mai andate d’accordo. E anche i grandi musei non avevano abbastanza autonomia per decidere come crescere. Tanta troppa burocrazia. Non si do- veva fare nulla?
«Si doveva fare, ma certe affermazioni sono pretestuose. Il problema nasce sempre dai diversi interessi quello politico e quello che riguarda la tutela. Ma lo sa quante richieste di trasferimento ho sul tavolo? E secondo lei dove vogliono andare tutti? Agli Uffizi. L’unico museo che garantisce una certa stabilità. La riforma è stata condotta male, a suon di decreti della presidenza del Consiglio». Le diamo un nome? «”Renziana”. Per la sua portata doveva essere discussa alle Camere. Non è stato coinvolto chi lavora sul territorio, è stata affidata a personale esterno ed amministrativo. E guardi che io Renzi l’ho sostenuto. Da sindaco e presidente della Provincia abbiamo avuto un rapporto molto proficuo».
Non rientrava dunque tra quelle funzionare che l’allora assessore renziano alla cultura Da Empoli definì «le vecchie zie».
«No, perché c’era molta stima tra noi. Poi certo, lui ce l’aveva con le soprintendenze troppo stataliste, troppo rigide. Molti aspetti negativi venivano anche da atteggiamenti personali di chi non aveva capito che i tempi erano cambiati».
In questi anni a Firenze sono cambiate tante cose. Basti pensare alle pedonalizzazioni.
«Ci voleva più attenzione. In piazza Duomo siamo passati dall’eccesso di macchine all’eccesso di turisti, non si vede più niente. Ma si poteva fare. Ogni pedonalizzazione provoca una modifica del tessuto sociale e culturale. Io non sono d’accordo con quella di piazza Pitti. Tutte le case di piazza Pitti sono bed and breakfast. E via Guicciardini? Ma chi ci vuole più vivere? Estendere tutta questa area pedonale in una città piccola come Firenze significa snaturarla. Dov’è la vera Firenze? Dov’è rimasta? Andate in piazza del Carmine, ci mancano i cavalli alla staccionata». Un bel rebus ora. Che fare? «Avevo cominciato a vedere i progetti del parcheggio interrato, li condividevo. Ora in quella piazza non basteranno le fioriere».
I residenti hanno sempre rifiutato quei progetti.
«Per forza. Le cose buone dell’estero non sappiamo copiarle. Ci sono un’infinità di parcheggi interrati che è quasi difficile trovarli per come sono fatti bene. Da noi li vedi da chilometri, sembrano luna park. Ma lo sa che a me sono arrivati a propormi le ringhiere sui sentieri del Cai della montagna pistoiese? E i dehors in piazza Repubblica che sembrano camere mortuarie?».
Beh un soprintendente che può dare una mano c’è sempre...
«Negli ultimi anni, nonostante i rapporti di stima che avevo con Renzi e Nardella, l’ambiente si era già inasprito. Non c’era più collaborazione. Su certe cose non siamo competenti, ma quando si lavorava assieme i risultati venivano. Non ci si doveva fare la guerra. E ora noi non veniamo più coinvolti nelle scelte culturali della città».
Palazzo Vecchio ha appena varato le regole anti mangificio.
«È positivo, ma il mangificio c’è già, i minimarket in via Maggio pure, la sparizione dei negozi di vicinato in via Sant’Agostino o in via dei Neri pure. I buoi sono scappati. Le politiche per residenti e commercio di qualità dovevano essere fatte prima. So quanto sia difficile, non immagina le resistenze che ho avuto nelle mie battaglie per il decoro».
Dal ‘79 al 2009 a Firenze. Poi il trasferimento a Bologna. Colpa dei Nuovi Uffizi?
«Sì, certo. E non ci ho più praticamente messo piede».
Eppure la genesi e le fasi più complesse dei cantieri li ha gestiti lei. Pure i contenziosi. A un certo punto il consorzio di imprese chiese 13 milioni di euro per riprendere i lavori. Lei la spuntò, si dovettero «accontentare» di 7 milioni.
«Quella volta vinsi la battaglia, ma persi la guerra. Sono una rompicoglioni, così mi hanno sempre vista al ministero. L’allontanamento dai Nuovi Uffizi fu una grossa cesura nella mia vita, è come se fossi andata in pensione quel giorno».
Ma prima fu commissariata. E nella squadra del commissario entrarono alcuni membri della Cricca della Ferratella, quelli a cui il terremoto de L’Aquila faceva fregare le mani...
«Ero stanca, così si giustificò il ministero. E uno della cricca, l’ex provveditore per le opere pubbliche della Toscana Fabio De Santis in una famosa intercettazione mi definì, se non mi sbaglio, una gran baldracca. I lavori dei Nuovi Uffizi per la cronaca dovevano finire nel 2011».
Del Vasariano senza ritratti che ne pensa? «Non sono d’accordo». Non avevamo dubbi. «Ha una funzione, vedere quello che di splendido c’è fuori».
Ma è ciò che vuole fare Schmidt.
«A me risulta che ci voglia mettere le statue».
Tornata a Firenze ha ritrovato il grande teatro dell’Opera.
«A me non dispiace, ma è una cattedrale nel deserto e gestire quegli spazi non è semplice. Bocciarono però la mia proposta: fare di quell’area la città della musica. Spostare all’Opera il Cherubini per farlo diventare un luogo di frequentazione quotidiana, una cosa viva. Il piccolo auditorium è perfetto per l’Accademia».
Con la pensione dovrà lasciare il suo alloggio di Boboli secondo le nuove regole del ministero: 60 mq per circa 500 euro al mese. Pochino.
«Guardi, quando lavori per lo Stato non ti compri una casa, qui i funzionari prendono da poco più di mille euro fino a un massimo di 3.500. Sono stati fatti errori, ma noi le regole ce le siamo date, gli altri no. Il ministro il 5 febbraio ha annunciato che era pronto un regolamento. Stiamo aspettando, non sappiamo nulla. Io ho un contratto. Fino al 2020. Dovrei andarmene, ma non l’ho capito».
Nel suo penultimo giorno di lavoro sul tavolo ci sono un sacco di cose spiacevoli.
«Ho una certa età, non me ne può fregare di meno. Se è per questo ho avuto un’altra vicenda poco piacevole appena rientrata a Firenze: mi sono rifiutata di acquistare un quadro per gli Uffizi (il Dante del Bronzino, ndr) e pochi giorni dopo a Roma mentre si faceva il punto sulla riforma dissero, caso strano, che a Firenze non funzionava niente. Ho chiesto spiegazioni, nulla. Quindi andai da un alto dirigente e gli dissi: “Mi conosci, le cose che non mi convincono non le faccio. Se non vi va bene però stavolta mandatemi al mare, in Sardegna”». Comincia una nuova vita. «Intanto chiuderò con il ministero, mi mette tristezza vedere colleghi che cercano da fuori di continuare a restare... uno diventa un vecchio trombone. Ho cercato di passare qualcosa all’unica giovane di 42 anni che sta al regionale e che è sprecata. Lo sa che gli ultimi entrati (mi pare nel 2003) non hanno mai fatto un restauro? E poi pure sto’ accordo OpificioUffizi...è scellerato. Così sono stati tagliati fuori i nostri artigiani, la nostra ricchezza». Grifoni lei è in pensione! «Se mi lasciano qui resto. Altrimenti io comunista me ne vado a Ladispoli, sul mare, anche se è stata costruita dai fascisti».
Lo Stato perde una rompicoglioni. Un funzionario puntiglioso. A cui essere riconoscenti. Riconoscenza è cultura.
La riforma ha sconvolto me e la mia generazione Ha stravolto il concetto di ministero per i beni culturali, siamo passati da tutela e restauro a privilegiare solo Uffizi, Colosseo e Pompei Nonostante i rapporti di stima con Renzi
e Nardella negli ultimi anni non c’era più collaborazione. Non ci si doveva fare la guerra, ora noi non veniamo più coinvolti nelle scelte Trent’anni a Firenze, poi il trasferimento per colpa dei Nuovi Uffizi Non ci ho più messo piede: è come se fossi andata in pensione il giorno in cui mi allontanarono