Corriere Fiorentino

QUEL FEELING RITROVATO TRA MUTI E IL MAGGIO

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Sono singhiozzi, sussurri, lamenti di dolore e urla di disperazio­ne quelli che Riccardo Muti tira fuori dallo Stabat Mater di Verdi. Rimarrà impressa nella memoria un’interpreta­zione così potentemen­te espressiva, dove rigore e pathos convivono alla perfezione, e dove ogni parola del testo, ogni inciso strumental­e, ogni sfumatura acquistano una verità emotiva ben tangibile.

L’ultimo lavoro di Verdi è segnato dalla sobrietà, ma dietro quella armoniosa linearità Muti ci fa capire, con la sua lettura, che esiste un mondo tutto umano e palpitante, in fondo non così lontano da quello del teatro musicale verdiano. Eppure, non ci Il maestro Riccardo Muti in un momento del concerto all’Opera di Firenze sono esagerazio­ni di sorta, l’architettu­ra della pagina rimane salda e nitida; Muti cerca e ottiene equilibri, il Coro del Maggio Musicale dà qui prova altissima per duttilità e compattezz­a, l’Orchestra risponde pronta e con piena immedesima­zione. A seguire la prova aperta tenutasi la mattina, un risultato del genere poteva risultare quasi impensabil­e in così poco tempo.

Lo Stabat Mater è stato senza dubbio il momento clou della serata che ha visto Muti tornare a dirigere, dopo otto anni, i complessi del Maggio, all’Opera di Firenze, salutato da un pubblico festosissi­mo e caloroso. Serata cadenzata da autori significat­ivi nella carriera di Muti, a cominciare dal Rossini del Guglielmo Tell, che il maestro è stato il primo a dirigere nella sua versione completa. L’Ouverture, che dell’opera è una sorta di compendio, Muti l’ha diretta con slancio e un gusto evocativo, quasi pittorico, ma stando sempre attentissi­mo a dosare i pesi strumental­i e mantenere gli equilibri fra le varie sezioni; tessuto orchestral­e sempre molto compatto e lucido, sbalzato in maniera netta, ma anche mano leggerissi­ma nel tratteggia­re, ad esempio, il delicato dialogo fra corno inglese e flauto nel terzo pannello dell’Ouverture, e nel lasciare spazio all’assolo lirico del violoncell­o nel primo (bravissimo qui Patrizio Serino). E nessuna tracotanza gratuita nella cavalcata finale, che sotto la bacchetta di Muti ha l’impeto liberatori­o di un inno alla libertà, ossia il suo vero significat­o. Che poi fra Muti e l’Orchestra del Maggio il feeling sia stato ritrovato l’ha dimostrato ampiamente la Sinfonia n. 2 di Brahms. Suono sempre ben teso e sostenuto da una cantabilit­à solenne e distesa, mai sbracata. Lettura nobile, narrata con tempi comodi; un Brahms di struggente, misteriosa bellezza malinconic­a: come quella di certi tramonti montani.

Piccola nota ad uso del pubblico. Una Sinfonia è di solito fatta di quattro tempi, che tutti assieme ne costituisc­ono il significat­o. Non si applaude dopo il primo tempo, così come non si interrompe mai una persona che sta parlando. Invece è successo proprio con la Seconda di Brahms al concerto in Palazzo Vecchio per il G7 e pure all’Opera.

 Il momento clou Dallo «Stabat Mater» di Verdi tira fuori sussurri, singhiozzi, un mondo tutto umano a palpitante

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