IL SET DI VINICIO «E IO CANTO LE OMBRE»
Stasera Capossela porta al Verdi il suo spettacolo sull’infanzia del mondo «Sarà un concerto molto cinematografico, con atmosfere alla Tim Burton Abbraccio il sogno e l’inganno della fantasia. I demoni? Ci sono con il sole»
«Vi porto nella caverna di Platone che fa da grembo all’infanzia del mondo», annuncia Vinicio Capossela. Ma anche a conoscere «l’Edward mani di forbice irpino», quello raccontato nel brano La bestia nel grano, il celebre demone irpino di mezzogiorno. «Vi porto — prosegue — in un viaggio nell’inconscio junghiano a cui sono arrivato studiando le ombre che nella cultura popolare diventano personaggi archetipici come spettri, antichi dei, il male stesso». Se fossimo in un film, sarebbe partorito dalla mente tanto cupa quanto giocosa di Tim Burton. «Ma è quasi come se lo fossimo, perché questo concerto sarà particolarmente cinematografico, con atmosfere un po’ come la sua versione di Alice nel paese delle meraviglie, grazie all’uso dei teli, degli spazi, della luce».
Lo immagina così il cantautore irpino, che come il regista americano ha un’anima cupa come il titolo dell’album Canzoni della Cupa ma altrettanto giocosa. Stasera (ore 20.45) il Teatro Verdi di Firenze si trasforma in tutto questo: set cinematografico fantasy-noir, grotta delle idee platoniche, incubatore di un’umanità bambina. Vinicio Capossela porta in scena «Ombra», la seconda parte dopo «Polvere» del suo doppio album Canzoni della Cupa, il suo più intimo, personale, auto-biografico-analitico proprio perché affonda nel mondo dell’infanzia.
«Ma qui parliamo dell’infanzia di tutti, non della mia, di figure, spettri che provengono da un tempo molto prima del nostro e si originano nel fuoco da quando cioè l’uomo ha iniziato a raccontarsi storie. Ogni leggenda, ogni tradizione che assorbiamo nell’infanzia da una cultura folclorica ci riporta all’infanzia del mondo. Scavando troviamo le radici, elementi dell’inconscio nella loro varia esistenza, la dualità, il tema dello specchio, del nostro riflesso, del regno dei morti».
È un disco che nasce dalla terra, che parla della terra, del senso di appartenenza a essa nello spazio e nel tempo, soprattutto passato. La prima parte, «Polvere» ha avuto ambientazioni all’aperto, piazze e arene, «per un’evocazione insieme ancestrale, agreste e di frontiera» come l’ha definita lui. La seconda vive al chiuso dei teatri, «in una zona meno definita, dove il materico
scompare per lasciare il campo alla proiezione dell’inconsistente».
L’idea che sta alla base della nuova poetica caposseliana è un ribaltamento del mito della caverna di Platone: «Fuori c’è la luce della scienza e della ragione che farà scomparire queste ombre» che lui canta e racconta «prima che l’incanto svanisca». Al contrario della visione platonica, Capossela non anela di uscire alla luce, non vuole svegliarsi dal sonno e dall’inganno della fantasia. Ma li abbraccia. «Parliamo di un mondo pre-industriale dove c’è spazio per il sacro — spiega — Le mie sono terre di stupefacente forza ma anche spaventevoli perché si è in balia della morte e della fame, di ciò che ti può spazzare via da un momento all’altro. Si vive sulla nuda terra». In questa dimensione anche alla luce del sole dominano i demoni come «il demone di mezzogiorno de La bestia del grano che smentisce la credenza che sia la mezzanotte la vera ora degli spettri, è invece mezzogiorno perché è il momento in cui non proiettiamo la nostra ombra per terra. È la vera ora terrificante».