Corriere Fiorentino

Bryant, l’idolo di Pistoia beffato dalla retina

Joe, il padre della star Kobe, nell’ultima partita a Pistoia Una finale play-off per l’A-1 rovinata dalle scelte arbitrali

- di Leonardo Bardazzi

«Caro basket, dal momento in cui ho cominciato ad arrotolare i calzini di mio padre e a realizzare tiri immaginari, ho imparato che solo una cosa era vera: mi ero innamorato di te». Nell’incipit della lettera d’addio alla pallacanes­tro del «Black Mamba» Kobe Bryant, c’è una carezza per suo padre Joe. Uno dei più grandi giocatori mai passati per la Toscana e nato per emozionare le folle, prima ancora che per fare canestro. «Lui è stato emozione. Giocava per far divertire e il pubblico riempiva i palasport solo per vedere la sua prossima giocata». Claudio Crippa, all’epoca playmaker di Pistoia e destinato a diventare capitano storico della squadra, ricorda quel ragazzo di Filadelfia con un pizzico d’emozione: «Era alto 206 centimetri ma faceva di tutto. Nessuno in Italia aveva visto un giocatore fare quello che faceva lui: in palleggio era velocissim­o, al tiro era implacabil­e e nei passaggi faceva innamorare. Joe è stato la chiave che ha aperto una porta: quella della passione di Pi- stoia verso la pallacanes­tro». «Capii subito di aver di fronte un uomo speciale — aggiunge Edoardo “Dodo” Rusconi, all’epoca coach pistoiese — quando subito dopo aver firmato il contratto si presentò in ritiro all’Abetone e per dieci giorni fece la preparazio­ne insieme ai giovani: un americano di 33 anni e reduce da quasi dieci stagioni coi profession­isti, che suda coi ragazzi. Vi assicuro che in pochi possono raccontare una storia così. A quei tempi l’Italia era un campionato importante, ma l’Nba era un mondo lontanissi­mo».

Eppure i 2.460 punti segnati in due anni da Joe «Jellybean» Bryant (di cui 1.363 segnati al primo anno, un record che nessun giocatore del club è mai riuscito a battere) non basteranno per portare Pistoia in A1. L’epilogo della sua storia in Toscana arriva il 7 maggio 1989. Dopo un campionato punto a punto con Montecatin­i, Firenze, Verona e Brescia, la Kleenex si gioca la storica promozione ai play-off contro le Cantine Riunite Reggio Emilia. Quel giorno al PalaFermi (ora PalaCarrar­a) non c’è uno spazio libero: 5.777 spettatori, record assoluto per la città e per la storia della squadra. Bryant, il giocoliere arrivato dagli Usa e idolo della folla, è la speranza dei tifosi. Joe parte forte, segna e fa segnare, riempie di falli gli avversari e domina il gioco. A pochi minuti dall’intervallo la Kleenex è avanti di dieci punti, lui e Pistoia iniziano a sognare la serie A. Nella ripresa Reggio Emilia si rifà sotto, ma Bryant (30 punti alla fine per lui) è immarcabil­e e scava un altro solco: 66-60 a tre minuti dalla fine. A questo punto però accade qualcosa che ancora oggi i tifosi pistoiesi non riescono a mandare giù: un tiro da tre punti del reggiano Grattoni rimbalza sul ferro ed esce, ma l’arbitro Deganutti lo convalida per un tocco della retina da parte proprio di Bryant. È un’azione confusa (nel 1989 non c’erano moviole), da cui nasce un parapiglia e la contestazi­one degli spettatori.

«Che beffa quel tocco della retina — aggiunge Rusconi — ricordo ancora Joe che salta per prendere il rimbalzo e l’arbitro che convalida un tiro finito sul ferro. Un fischio di una fiscalità clamorosa che purtroppo ci costò la promozione. Fu un’ingiustizi­a, ma anche questo fa parte dello sport». Reggio Emilia infatti ne approfitta, vince 72-71 e vola in serie A, mentre a Pistoia rimane l’amaro in bocca e l’orgoglio di applaudire una squadra destinata comunque a scrivere pagine di storia indelebili (l’anno dopo, anche senza Bryant, avrebbe vinto il campionato): «Fu tremendo — ricorda Crippa — una delle più grandi delusioni dell’intera carriera. L’estate successiva Joe se ne andò, lasciandoc­i però tante piccoli grandi cose che ci aiutarono a crescere. Era un campione, ma sapeva ascoltare e consigliar­e tutti. I momenti più belli passati con lui sono quando, nello spogliatoi­o, ci raccontava dei duelli con Julius Erwing in Nba, delle schiacciat­e e dei punti segnati con i Philadelph­ia 76ers. Lo ascoltavam­o affascinat­i, perché per noi ragazzi innamorati del basket, solo sentire i racconti di certi campioni, era speciale».

Una presenza forte quella di Joe Bryant, che si faceva sempre sentire. Fuori e dentro il campo: «Nei momenti più difficili delle partite— continua Crippa — invece ricordo che mi diceva “dai palla a me che ci penso io”. Una volta contro Montecatin­i mi confessò: “Oggi vinco da solo”. E così fece. L’anno prima ne aveva segnati 52 in due partite diverse, contro Rieti e Reggio Calabria, ma per quello che faceva in campo avrebbe potuto segnare 50 punti in ogni partita. Lui però preferiva lo show, perché, come ripeteva spesso, “senza pubblico non esisterebb­e questo sport meraviglio­so”». Eppoi c’era Kobe. Lì, a bordo Joe e Kobe Bryant sorridono Sopra, la squadra della Kleenex Pistoia nel 1989 e un’azione di Joe con la maglia della Maltinti (1988) campo. A rubare i segreti del padre in attesa di diventare campione. «All’epoca aveva 10 anni — racconta Rusconi — tutte le domeniche guardava le partite da bordo campo, all’intervallo schizzava sul parquet e cominciava a fare canestro da ogni posizione. Spesso giocava in uno contro uno con mio figlio che la sera, sconsolato, mi raccontava: “Papà, ha vinto ancora lui”. Era chiaro che sarebbe diventato un profession­ista, anche perché l’amore per la pallacanes­tro di quella famiglia era contagiant­e. Mi dispiace solo che Joe e Kobe se ne andarono dopo appena due anni: dopo la beffa con le Cantine Riunite, Bryant firmò proprio per Reggio Emilia. Ma non ho mai capito perché la mia società lo fece andare via».

«Kobe era il cucciolo che ci seguiva a ogni passo — chiude Crippa — si vedeva che era un predestina­to. Spesso veniva anche ai nostri allenament­i e anche lì non perdeva occasione per provare qualche tiro. Joe gli aveva insegnato il palleggio sotto le gambe, sembrava fosse un ragazzo dei college americani. La differenza tra loro due è una sola, ma grandissim­a: Joe ha fatto una bella carriera, ma ha sacrificat­o qualcosa nel nome dello spettacolo. Del semplice piacere di far battere le mani al pubblico. Kobe invece ha vissuto per arrivare in alto. E per vincere. Ma la passione per il basket gliel’ha trasmessa il mio amico Joe. Anche per questo, quando ho ammirato Kobe dal vivo a Los Angeles, spesso mi sono tornati in mente quei bellissimi momenti sul parquet di Pistoia. E i canestri di papà Bryant, il campione che mi ha fatto crescere».

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