DELUSIONI DI UN PROFESSORE
Era un modo per metterli a loro agio, facendoli scrivere di argomenti che conoscevano, ma anche un tentativo di comprendere come fosse cambiato il rapporto fra genitori e figli. Non c’era nessuna imposizione: chi voleva poteva scegliere, nella terna delle tracce, il tema sulla protervia di don Rodrigo o sul problema (già allora) del traffico. Ma quasi tutti preferivano parlare della loro famiglia, con argomenti che il più delle volte mi meravigliavano. Mi colpiva l’assenza di attriti con i genitori: sorprendente per chi come me, figlio della generazione del ’68, aveva vissuto il rapporto con la famiglia anche come una serie di faticose conquiste, dai pantaloni lunghi alle chiavi di casa a 18 anni, più vicino al protagonista del Giardino dei Finzi Contini che ai miei alunni. In un primo tempo attribuii quell’assenza di conflittualità alla buona indole delle generazioni uscite dal riflusso, ma presto intuii che quei quattordicenni avevano già quasi tutto: dal motorino, alla libera uscita per le notti in discoteca: cos’altro dovevano chiedere? Erano i primi lucori degli anni ’80, che per gli insegnanti sono stati un apostrofo rosa fra l’età postsessantottarda del «contropotere studentesco» e le emergenze dei decenni successivi. I miei alunni provenivano da famiglie di ceti medi emergenti, che cercavano di dare ai figli quello che non avevano avuto e si rivolgevano alla scuola con un rispetto oggi inimmaginabile. Fra i ragazzi era chiara la distinzione fra discoteca e aule: la campanella faceva ancora da cesura. Volli convincermi che quella fine della conflittualità fra generazioni fosse il segnale di un’Italia uscita dagli anni di piombo, in cui il peggio, come cantava Sergio Caputo, doveva essere passato. A distanza di più di 30 anni devo ammettere che non è così. Concedere tutto ai giovani non ha contribuito a formare cittadini più consapevoli o più appagati. I 20 anni, come sosteneva Paul Nizan, non sono mai stati un’età felice, ma si ha l’impressione a volte che i ventenni di oggi, non solo per la congiuntura economica, siano più infelici dei coetanei di 30 o 50 anni fa. Per di più la loro infelicità si traduce in una violenza nemmeno motivata da alibi pseudoideologici. È una violenza contro gli altri, spesso contro gli stessi familiari, ma anche contro se stessi per quel suicidio in differita che sono l’abuso di alcol e droghe, la guida spericolata, lo stesso térere tempus in attività inutili o dannose. Questa violenza non è figlia della rivolta contro le regole, ma della loro assenza: di una scuola che promuove Franti a «studente antagonista» portatore di «bisogni educativi speciali» e che a furia di abolire o sdrammatizzare gli esami rischia di lasciare i ragazzi indifesi dinanzi al grande esame della vita. Le generalizzazioni sono sempre pericolose resta però da sperare che un giorno non dovremo pentirci di avere abolito quel servizio di leva che almeno insegnava a mangiare quello che c’è, e magari anche ad avere accettato nelle scuole superiori, in nome dell’inclusione, anche chi non è né capace né meritevole e con la sua violenza finisce per escludere lo studente rispettoso delle regole. La legge di Gresham non esiste solo in finanza: anche nelle aule, e nella vita, la moneta cattiva scaccia la buona.
Pensavo che la fine delle conflittualità fra generazioni fosse il segnale di un’Italia uscita dagli anni di piombo Errore: oggi la violenza è contro se stessi