Il Cristo, un capolavoro Da ogni punto di vista
(foto: Sestini) è, infatti, quello della bellezza spirituale che qui è incarnata tra il fiore della giovinezza e il colmo della vita fisica. L’adorazione del Crocifisso transita nel giovane Buonarroti per i canali misteriosi dell’eros, ma non vi è nulla di morboso e di mortifero, perché non c’è attaccamento ai sensi, tantomeno angoscia per la sofferenza corporale e la morte. Certo è che la conoscenza della statuaria antica deve aver influenzato l’artista, offrendogli esempi di forme bellissime del tutto simili a quelle che vagheggiava o riconosceva in termini neo-platonici per strada, forse passeggiando per l’Oltrarno, dove gagliardi garzoni si mescolavano a alteri signori. Con parole del tempo, Michelangelo contemplava da «innamorato» il corpo di Cristo, un essere amato «spiritualmente» in forme umane di avvenente beltà. Infatti «amore» è per lo scultore una forma di conoscenza dell’altro — qui Dio nell’umano — che si fa veicolo fisico, quindi estetico, di una rivelazione-reminescenza spirituale e trascendentale. In altre parole, al tema del sacrificio e del dono si aggiunge, nel caso del Buonarroti, quello dell’amore di bellezza di matrice neo-platonica. Il sacrificio si spiega con la certezza di una trasmutazione. Come nell’innamoramento, quando ci si trasforma, secondo Platone, in essere alati grazie alla donazione di sé all’altro. Nella sagrestia è finalmente dato condividere una forma d’iniziazione alla bellezza, e attraverso questa al divino, che sempre meno ci appartiene. Michelangelo ci ha detto come guardare le sue opere: «Per fido esempio alla mia vocazione/Nel parto mi fu data la bellezza/che d’ambo l’arti m’è lucerna e specchio…/ S’e’ giudizi temerari e sciocchi/ Al senso tiran la beltà, che muove/ E porta al cielo ogni intelletto sano,/ dal mortal al divin non vanno gli occhi/ Infermi, e fermi sempre pur là d’ove/ Ascender senza grazia è pensier vano». Ricordiamoci allora di quelle parole girando intorno a quel numinoso crocifisso.