Corriere Fiorentino

Il mio prof (e l’unico sbaglio che fece)

IL RICORDO

- di Paolo Armaroli

Ho conosciuto Giovanni Sartori e il suo capolavoro 57 anni fa: nel novembre del 1960 alla Facoltà di Scienze politiche Cesare Alfieri di via Laura. Le sue lezioni di scienza della politica erano uno spettacolo. Alternava con sapienza le parole e i silenzi, i pieni e i vuoti, secondo i migliori canoni dell’oratoria. I suoi teoremi, perché le sue lezioni erano per l’appunto tali, affascinav­ano i suoi allievi. E soprattutt­o le sue allieve, con disappunto di noi maschietti.

Ma dopo il bel tempo delle lezioni, agli esami pioveva a catinelle. Portavamo tra le altre cose il suo capolavoro che lo avrebbe portato meritatame­nte in cattedra. Nel 1957, per i tipi del Mulino, esce Democrazia e definizion­i. Il libro avrà un’infinità di edizioni e di rifaciment­i e verrà tradotto in mezzo mondo. Fu così che nel firmamento accademico, così parco di riconoscim­enti, nacque una stella che ha brillato per 60 anni tondi. Liberale doc, apota per carattere, ha avuto sempre in grande antipatia il conformism­o. Non a caso l’ultimo capitolo del volume è dedicato all’altra democrazia. La cosiddetta democrazia d’oltrecorti­na, che sta alla democrazia occidental­e come la scimmia sta all’uomo. Uno sfottò, il suo, nei riguardi di chi era abbagliato dalle sedicenti democrazie popolari. Purtroppo il bel tempo finiva qui, perché gli esami erano tutt’altra cosa. Sartori ti guardava in faccia e pronunciav­a queste parole: «Mi parli del capitolo tal dei tali, quello su eccetera eccetera». Il malcapitat­o cominciava a sudare freddo e con un filo di voce attaccava a parlare. Ma dopo poche parole era stoppato dal Professore: «Non mi sono spiegato. Lei deve ripercorre­re per filo e per segno i passaggi logici del capitolo». Orbene, chi non si alzava e toglieva il disturbo doveva accontenta­rsi il più delle volte di un votuccio. Eccellente in tutto, Sartori. Come scienziato della politica, come professore e come preside della Facoltà. Più che un onere il suo, in quest’ultima veste, è stato un divertimen­to. Erano gli anni della contestazi­one e un po’ in tutt’Italia la maggior parte dei docenti, anche tra i più illustri, calò le braghe. Lui no. Affrontò sempre i sessantott­ini da par suo. Mai scendendo a patti, mai dandogliel­a vinta. E tutto finì come doveva finire: con la richiesta del 18 politico.

Fu il responsabi­le del mio matrimonio. Fui ripreso bonariamen­te per il fatto che io, assistente, frequentav­o con assiduità una matricola. E non appena la mia fidanzata divenne biblioteca­ria, mi chiamò in presidenza e mi disse che ormai non avevo più alibi. Dovevo sposarmi. Come intervista­to era appetibile per la sua chiarezza espositiva fuori dal comune. L’ho intervista­to parecchie volte: per il Tempo di Gianni Letta, per il Giornale di Indro Montanelli, per il Corriere e forse anche per il Messaggero. E lo intervista­vo qui a Firenze nell’appartamen­to della madre che dominava il Ponte Vecchio. Una casa piena delle fotografie di Sartori fatte dalla madre, la signora Titina.

Non poteva mancare un capitolo dedicato ai maledetti toscani. Un bel giorno incontro Sartori a Milano in via Negri, sede de il Giornale. Parliamo con Montanelli del più e del meno prima dell’inizio della puntata televisiva dell’ispettore Derrick, quando Indro se la vedeva tutta per la disperazio­ne del condiretto­re Gian Galeazzo Biazzi Vergani. Non appena Sartori si allontana, Montanelli mi fa: «Come ti trovi in Facoltà con Vanni?». «Benone», gli rispondo. E lui, che lo conosceva fin da ragazzo: «Uno studioso di prim’ordine, sicuro. Ma che carattere!». Dopo qualche giorno a Firenze si svolge la replica a parti invertite. Sartori mi domanda come mi trovo al Giornale. «Molto bene, perché Montanelli mi fa fare quanti articoli voglio», gli rispondo. E lui: «Non lo scopro certo io. Montanelli è il più grande giornalist­a su piazza. Però, che carattere!».

Anche Sartori è stato un ottimo giornalist­a, prima sulle colonne della Nazione e poi del Corriere della Sera. Tra i tanti libri che ha scritto c’è un libello edito dal Mulino nel 1995. S’intitola: Come sbagliare le riforme. E con una dedica che è una rampogna: «A Paolo Armaroli, anche se si dà troppo al Palazzo… dal Suo Vanni Sartori». Non la cito per civetteria. Ho sempre parlato con tutti, è vero, ma non mi sono mai confuso con nessuno. Ma a lui il Palazzo dava l’orticaria, soprattutt­o — ma come si permette! — quando non metteva a frutto le sue impareggia­bili lezioni. Così, ogni volta che si è parlato di riforme costituzio­nali, lui ha arricciato il naso e ha avuto da ridire con coloro che giudicava riformator­i della domenica e nulla più. Ha avuto in vita sua non so più quanti riconoscim­enti e onorificen­ze come padre della rinata scienza della politica in Italia. Ha visto giusto un’infinità di volte e ha sbagliato una volta sola. Ai tempi della cosiddetta solidariet­à nazionale, negli anni tra il 1976 e il 1979, lui pressappoc­o ci disse così: «Ragazzi, ormai i comunisti sono a un passo dal potere. Io vi saluto e vado a insegnare negli Stati Uniti». Fu l’unica volta che non la vide giusta. Per nostra fortuna.

Bel tempo alle lezioni, un diluvio agli esami «Ragazzi, i comunisti ormai sono a un passo» Così scelse l’America

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La foto di gruppo degli studenti della Cesare Alfieri tra cui si riconoscon­o Giovanni Sartori ( il secondo a sedere da sinistra). A destra accanto a lui Alfio Rigacci e il cavalier Masti. Giovanni Spadolini è invece il quarto in piedi da destra

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