Tarchi: «Siamo tutti allievi suoi»
Tarchi: è ancora nelle nostre aule e nelle lezioni, con testi e citazioni
Professor Marco Tarchi, Giovanni Sartori è stato il padre delle scienze politiche in Italia: come nacque questa intuizione?
«Sartori ebbe una formazione poliedrica. Si laureò in Scienze politiche e sociali a Firenze nel 1946 dopo aver seguito corsi di impostazione giuridica, filosofica e sociologica. La libera docenza la ottenne in Storia della filosofia moderna nel 1954 e un anno dopo le affiancò quella in Dottrina dello stato, che si può considerare un primo passo nel mondo più specifico della Scienza politica, al singolare».
L’ambiente accademico di Firenze fu decisivo per questo passaggio?
«A giudicare dalle ricostruzioni autobiografiche — ricordo quella che tenne a Firenze al momento di andare fuori ruolo, in un’aula stracolma di studenti entusiasti — sì, perché Sartori riteneva che in Facoltà mancassero materie in grado di dar conto delle leggi specifiche a cui lo sviluppo della politica è soggetto: per un lettore di Machiavelli come lui, era un assurdo. Ma sulla vocazione politologica influì molto anche l’incontro con la scienza politica statunitense, che era ad uno stadio avanzato e aveva già prodotto capiscuola di fama mondiale».
Qual è il valore della disciplina da lui fondata? Il «salto in avanti» a suo giudizio più importante? E la sua attualità?
«La scoperta di un ambito autonomo di sviluppo della politica, pur nella consapevolezza che su di essa premeva l’influenza di fattori di altra origine: sociali, economici, etici, giuridici. L’analisi scientifica dei processi che caratterizzano questo campo dell’azione umana, aliena da pregiudizi normativi e preferenze ideologiche, è una dimensione imprescindibile della conoscenza del mondo che ci circonda, che altre discipline pur rilevanti non sono in grado di scandagliare a fondo».
Come lo ricorda come docente? Gli studenti, i ricercatori, i colleghi, lo amavano o temevano?
«Sartori si trasferì a Stanford nel 1976 e non l’ho conosciuto come docente, ma l’esperienza di assistente in aula che ho avuto con lui negli ultimi due anni della sua carriera (che erano i primi due della mia), fra l’autunno 1992 e l’estate 1994, è stata impagabile. Così come era uno studioso rigoroso, nel linguaggio, nel metodo e nella logica, nei convegni accademici, nelle aule sapeva essere, a contatto con gli studenti, un divulgatore acuto e divertente, molto amato. Con la maggioranza dei colleghi aveva ottimi rapporti, ma nei casi in cui le cose andavano diversamente, non lo mandava a dire, e alcune sue manifestazioni di disistima sono rimaste leggendarie».
Esiste una scuola di Sartori, della Cesare Alfieri?
«Storicamente, è stata la colonna portante degli insegnamenti politologici della Facoltà, e farei torto a qualcuno se sciorinassi una lista dei suoi allievi diretti e indiretti che vi hanno insegnato: quasi tutti i politologi che oggi hanno dai sessant’anni in su sono “sartoriani” di formazione. E ancora oggi l’insegnamento di Sartori è trasmesso nelle nostre aule: più di uno di noi continua a mettere suoi testi in programma, e le citazioni a lezione sono frequenti».
Perché leggere oggi uno dei suoi libri sulla scienza della politica: si studia come un classico o come in testo innovativo?
«Li si studia come una miniera di riflessioni che non si sono logorate nel tempo, e che continuano ad ispirare quanti non si rassegnano a fare della scienza politica un esercizio di mere tecniche quantitative privo di qualunque spessore teorico».
Amato dagli studenti Con alcuni colleghi i rapporti non erano ottimi Le sue sfuriate sono leggendarie