RITORNO NELLA STRADA PIÙ BELLA DEL MONDO (CHE NON È PIÙ LA MIA)
Caro direttore, «A Firenze dov’è via di Sollicciano?» è la domanda che mi ha riportato alla mente il suggestivo articolo di Vanni Santoni pubblicato domenica 26 marzo sul Corriere Fiorentino. Ed è la stessa domanda che mi facevano i professori della scuola media Machiavelli quando dal 1945 al 1948 la frequentavo in piazza Pini (unica scuola media per tutto l’Oltrarno) e scrivevo sui quaderni la mia residenza. Una strada che per me davvero era allora la più bella del mondo, legata ai ricordi dolci e drammatici della mia infanzia e soprattutto del passaggio della guerra, da quando una domenica di primavera dei 1944 fu invasa dai carri armati tedeschi, che cercavano protezione dagli aerei da ricognizione sotto le fronde dei gelsi di cui la strada era piena (per la vecchia coltivazione dei bachi da seta presso la fattoria Chiari) ed uno si guastò proprio davanti a casa mia, dove rimase per più di una settimana in attesa di essere riparato; tra quei ricordi c’è anche la caccia all’uomo nei campi da parte dei tedeschi della Todt, che si concluse con una raffica di mitra ad una contadina che scappava e che fortunatamente fu colpita solo alle gambe, mentre mio padre si salvò rifugiandosi sotto il letto matrimoniale dal tedesco che lo inseguiva, con mia madre che non ha mai capito se l’avesse fatto apposta, convinto dalle sue lacrime, e che dopo pochi giorni ebbe modo di sdebitarsi con le truppe del terza Reich curando la mano di un tedesco ferito dallo scoppio di una granata, mentre il ragazzo (tale era) sanguinante ringraziava tutto contento perché sarebbe andato a casa; o ancora le lunghe processioni dei soldati alleati che dalle colline di San Martino si recavano a combattere al fronte sull’Arno (e fu allora che vidi per la prima volta soldati di colore) e mi salutavano «Hello, boy!»; all’accampamento degli americani che ricostruivano il ponte Bailey sulla Greve e che ci riempivano di ogni sorta di cibarie sconosciute, ma provvidenziali peri miei che avevano quattro figli (di cui due gemelli di due anni); come dimenticare poi il terribile scoppio della bomba mimetizzata nella macchia della parte della strada che da via Pantano va verso via Baccio da Montelupo e che maciullò orrendamente tre ragazzi di Casellina? Ricordi incancellabili di una strada stretta, sterrata, circondata da fossi che i contadini tenevano puliti per consentire il facile scorrimento delle acque piovane, quei contadini che con tanta cura e tanta professionalità coltivavano quei campi regolarmente allineati (forse ancora — chissà — dall’epoca del romano Solicius), delimitati dai loppi delle viti, segnati dai canaletti dell’acqua per innaffiare, dove crescevano bene turgidi pomodori, rigogliosi petonciani, teneri fagiolini «in erba» e «mangiatutto», dolcissimi piselli, verdi zucchine (ah, le zucchine «fiorentine») e soprattutto —in questo periodo — succulenti asparagi, che venivano legati a mazzi, distesi, con rami di giunco. Ci ho abitato venti anni, fino al 1954, ne ho tanta nostalgia, ma non ci passo più perché è riconoscibile, cani campi abbandonati, la grande arteria Fi-Pi-Li che l’attraversa, le carceri che incombono sullo sfondo. La ringrazio e ringrazio Vanni Santoni di tutto cuore per l’articolo, che mi ha commosso e che mi ha spinto a renderla partecipe di questa memoria di una strada che per un vecchio ormai rintronato rimane importante più che se fosse stata ritratta da Warhol.
Ricordi La caccia all’uomo dei tedeschi e il saluto degli alleati: «Hello boy» I fossi dei contadini e pomodori, fagiolini, asparagi distesi a mazzi