Boncompagni, una vita in fuga. Da Arezzo
Amava la sua città ma la lasciò a 18 anni: «Non c’erano donne né semafori»
Il sindaco Ghinelli «L’ho incontrato solo una volta, ma non gli dissi nulla: lui era un mito, io un ragazzo»
«La prima volta che tornai ad Arezzo, in treno, alla stazione sentii l’annuncio: “Arezzo, stazione di Arezzo”. Mi dissi: “Non ce la faccio, torno indietro”. Sembrava di tornare nel Medioevo». Gianni Boncompagni, scomparso a 83 anni nel giorno di Pasqua, la raccontava così la sua città, con la stazione più brutta al mondo.
Il regista, conduttore e paroliere ad Arezzo era nato nel 1932, e da Arezzo era fuggito a diciott’anni. E mai mancava di ironizzare su quella cittadina di provincia, sugli anni di gioventù passati a non far nulla in piazza Guido Monaco. «Negli anni ’50 non c’erano nemmeno i semafori», raccontò molti anni fa al Corriere della Sera, in un’intervista a Claudio Sabelli Fioretti. «Ad Arezzo non si faceva niente — diceva — Dopo aver mangiato la minestrina a casa, ci vedevamo in piazza Guido Monaco, quello che ha inventato le note musicali, alle due. Una piazzaccia, non c’erano alberi, sembrava di stare a Bengasi. Nessuno di noi aveva soldi, tranne uno che si chiamava Sacchi e che comprava due Nazionali, mi ricordo, due Nazionali. Non facevamo niente. Ma leggevamo tanto». E il sabato sera tutti a casa di Gianni a sentire alla radio i concerti Martini e Rossi in diretta da Torino. Così, quando se ne scappò in Svezia, la differenza gli saltò all’occhio. Il primo amore, Anita, era la figlia di un chirurgo che lo invitò a casa col padre lì presente. Gianni era «allibito e terrorizzato», ma non poteva che adattarsi alla modernità scandinava, visto che «non esistevano donne ad Arezzo. Ricordo solo uomini. Al massimo strane compagne di scuola tutte intabarrate in maniera tale che non si capiva che cosa c’era sotto. Aliene». Ma sotto sotto, parlava spesso dei suoi vecchi amici, come il pittore Franco Onali o l’architetto Giorgio Venturini. Una volta, lui che era cresciuto tra Molin Nuovo e Saione, ammise persino che ad Arezzo si stava meglio che a New York.
«Come tutti gli aretini non si vantava della sua città, se poteva la scherniva. Ma era un modo per dimostrarle affetto», racconta il sindaco Alessandro Ghinelli, che Boncompagni lo intravide solo una volta («Lo incontrai in piazza Sant’Agostino, ma non gli rivolsi parola: lui era già un mito, io solo un ragazzino»), ma ammette di essere cresciuto all’ombra del grande concittadino: «Era il ’68 e tutti si usciva dal liceo all’una e mezzo, si correva a casa e si mangiava in fretta, per andare a chiudersi in camera per ascoltare alla radio Bandiera Gialla».